Oltre a essere il titolo di una delle opere letterarie più celebri di tutti i tempi, "odissea" fa propria la complessa impalcatura del poema omerico e in italiano va a rappresentare una lunga trafila di peripezie e avventure, tutt'altro che di semplice risoluzione. A suo modo la vita di ognuno di noi può in qualche modo rientrare sotto la definizione del termine, quella di Nubya Garcia vi è compresa invece in piena regola, a fronte di un quadriennio sì ricco di collaborazioni e comparse in dischi altrui, ma soprattutto teso ad approfondire e perfezionare le proprie abilità di compositrice e arrangiatrice.
Sono stati anni creativamente burrascosi, nel senso più fecondo della parola, anni di frenetica energia in cui la sassofonista di Camden si è allontanata dalle ispirazioni fondanti del suo sound, scoprendo invece la potenza espressiva dell'orchestra, le declinazioni emotive di un impianto strumentale tanto magniloquente quanto capace di estrema duttilità, sotto le giuste mani. Non che la base non rimanga saldamente jazz, "Odyssey" si rivela quanto il titolo promette, un'epopea in piena regola, banco di prova per un gusto compositivo raffinato, che getta sponde verso gli stili e i timbri più disparati; più che l'obiettivo finale, è l'esperienza in sé, quanto si riesce a carpire, che conta davvero.
Come prevedibile, il viaggio porta Nubya lontano, la allontana dalla base londinese per consentirle di muoversi oltre l'oceano, toccare base negli Stati Uniti e immergersi in acque diverse, non necessariamente più torbide ma in ogni caso ben più impetuose. E come nel poema classico, sono gli incontri con figure femminili a costituire snodi nevralgici per l'azione.
La fantasista vocal-jazz per antonomasia Esperanza Spalding chiama a raccolta l'intero organico orchestrale (courtesy of Chineke! Orchestra, la prima a maggioranza di musicisti non-bianca) e lo conduce verso un albeggiare dalle proporzioni immani, melodista d'eccezione di un risveglio dei sensi tanto grandioso quanto soave. In questa sottigliezza di tono, in questa gestione delle emozioni che lascia spazio a più "consueti" passaggi fusion, il sassofono di Garcia segue deciso la melodia, si mantiene docile dietro le maglie di un disegno rigoroso, che coordina elementi e parti con accentuata perizia.
"Set It Free", in compagnia di Richie Seivwright dei Kokoroko, lascia entrare la compositrice a contatto con l'universo hip-hop, con il drumming di Sam Jones a condurre gli scintillanti cambi di tono verso le penetranti suggestioni di Makaya McCraven. Grazie a un'istituzione del soul e hip-hop quale Georgia Anne Muldrow, la struttura di "We Walk In Gold" si avvale di una maggiore sinuosità, appena prima che una rapida ascesa evidenzi un'impazienza improvvisa, un senso di urgenza a cui tutto l'insieme non riesce a sottrarsi.
Anche nei tanti momenti in cui il viaggio non si affida a narratrici esterne, Garcia tiene salda la rotta, controlla la traiettoria anche quando altre forze sembrano prendere il sopravvento. D'altronde, è già pienamente cosciente della proporzione dell'impresa da subito, con una title track che diventa il campo d'azione di una sfavillante contesa tra il piano di Joe Armon-Jones e il contrabbasso di Daniel Casimir, in un accumularsi di tensione che la compositrice risolve con una sontuosa ripresa del tema iniziale, accompagnata da risolute striature d'archi, declinate con fare impressionista.
Incidenti di percorso come le minacce di "The Seer", cariche di una frenesia inesorabile (la batteria e il sassofono a caricarsi di un'agitazione crescente), o il profondo senso di rimpianto che accompagna parentesi di bonaccia (il pizzicato sostenuto che sostiene il lamento centrale del violoncello in "Water's Path") poco possono di fronte alla tenacia, a una tempra di una mente curiosa.
Prima o poi arriva tutta la chiarezza del caso, foss'anche con quel pizzico di insolenza che di certo non guasta (gli accenti giamaicani che contrassegnano "Clarity"), si svela il senso profondo di un'avventura che in fondo non è altro che la vita stessa, con tutte le ascese e le frenate del caso (i lussuosi ostinati melodici di "In Other Words, Living").
Si arriva alla conclusione che l'unico sentimento possibile non può essere altro che il trionfo, un senso di esultanza che abbraccia tutti i sensi, scollinando verso un più che meritato torpore, dopo siffatta esperienza. Con quello stesso passo dub che già aveva fatto capolino nell'esordio, Nubya Garcia chiude con "Triumphance" una vera vittoria creativa, la scommessa vinta nella gestione di registri compositivi ed esecutivi dalla complicata manipolazione. Dopo di questo, vi è soltanto il riposo.
27/09/2024