Un sostanziale cambio di sound accompagna il secondo album della band brasiliana prog-rock-metal Papangu, già attenzionata ai tempi dell’impressionante e originalissimo “Holoceno” (2021). Mentre l’esordio si concentrava sulla crisi climatica, questo nuovo “Lampião Rei” racconta le avventure, tra storia e leggenda, del bandito Virgulino Ferreira da Silva (1897 - 1938). Se nell’esordio si citavano otto musicisti più il guest Toby Driver, intervenuto per un remix, qui si configurano come un sestetto con ben cinque ospiti. La strumentazione si è notevolmente estesa e comprende, adesso, anche Wurlitzer, Clavinet, un pollo di gomma, la zabumba brasiliana, l’udu nigeriano, un violino, le conga e tanto altro.
Riducendo le dosi metal fanno emergere con prepotenza la componente fusion, già avvertita chiaramente nell’esordio, ricollegandosi all’inafferrabile jazzista Hermeto Pascoal, il cantante Edu Lobo, ma anche alla psichedelia dell’udigrudi e alle danze del forró. Questi elementi, che coesistono con il prog-rock-metal con richiami ai Magma già apprezzato in "Holoceno", rendono “Lampião Rei” un album meno aggressivo, più colorato ma non meno creativo.
La vita di Lampião, bandito o meglio cangaço del nord-est del paese (sertão), è raccontata dalla nascita fino all’ottenimento dello status di più grande criminale brasiliano. Il proposito è di proseguire il racconto, giungendo fino alla morte con tanto di truculenta decapitazione, in un prossimo album. Al suo apice il criminale era a capo di una banda, arrivata a contare anche 100 cangaceiros, con la quale ha terrorizzato sette stati del Brasile. Personaggio controverso e carismatico, responsabile di centinaia di stupri e omicidi, fu ferito sei volte e trovò anche il tempo per una storia d’amore leggendaria con Maria Déia, detta Maria Bonita. La morte a cui si accennava non fu meno eccezionale e contribuì significativamente alla fine del cangaço, un banditismo di cui è il massimo esponente.
La scelta di raccontare questo controverso eroe popolare, capace di grande onestà e pietà ma anche di sfrenata violenza, ha contagiato nei decenni anche artisti conosciuti qui da noi e tanto diversi come Joan Baez, che ne racconta in "O Cangaceiro" (1964), e i Sepultura, che lo citano in "Ratamahatta".
L’album si apre con la composizione in tre parti “Acende a luz”: una breve introduzione acustica sognante, con raffinate armonie vocali, apre per la più corposa seconda parte, un prog-rock psichedelico che s’infiamma con inaspettati interventi in growl e un’epica cavalcata fusion con tanto di lungo assolo galattico doppiato da un synth; una frenetica danza copre gli ultimi minuti, con gli strumenti che s’intrecciano in un coloratissimo intarsio jazz-rock.
Lo sludge dell’esordio ritorna nel riff che guida i sette minuti abbondanti di “Boitatá” (un serpente di fuoco del folklore brasiliano che aggredisce chi appicca incendi a campi e foreste), minacciosa ma anche psichedelica, morsa da altri interventi in growl sempre montati su complesse geometrie fusion. Nel finale si aggiungono, mentre si ripete una filastrocca ipnotica a più voci, i fiati.
Segue la più breve “Oferenda no alguidar”, con più evidenti riferimenti alla musica brasiliana, pur con rinforzi di doppia-cassa. La breve e dolcissima “Mulher rendeira”, un assolo di chitarra elettrica, spezza in due l’album e introduce una seconda parte con altre sorprese. “Sol raiar” vede la band interpretare la musica brasiliana con grande eleganza prima di tornare al suo atipico fusion-metal in “Maracutaia”, guidata dal pianoforte e rapita a metà da lunghi interventi strumentali; muta ancora in canzone e chiude con un intenso arrembaggio prog-metal, con tanto di esilarante pollo di gomma (!).
L’ultima parte è divisa tra “Ruínas” e “Rito de coroação”, due brani di oltre otto minuti. Il primo, strumentale, rimbalza su una melodia per costruire un affresco impressionista, poi il Clavinet lo trasforma in un funk-jazz su cui i fiati disegnano melodie mentre si arricchisce in modo creativo l’arrangiamento. “Rito de coroação” recupera in modo più esplicito l’anima rock e metal, sempre declinata secondo uno stile sofisticato e tecnico che rimanda nuovamente ai King Crimson tanto presenti nell’esordio, per un’ultima avventura multiforme chiusa da vari assoli e un lento fade out.
Ripetere “Holoceno” sarebbe stato impossibile, quindi i Papangu hanno intrapreso un’altra strada. Hanno scritto un imprevedibile album di prog-rock che prende a prestito molti elementi dal jazz, dal metal e dalla musica brasiliana e che, ancora una volta, li pone in una nicchia in cui non hanno molti concorrenti. In attesa della seconda parte della vita di Lampião, possiamo celebrarlo come uno degli album più originali di quest'anno.
20/11/2024