Se avete partecipato con passione al ritorno dell’ex-Walkabouts Chris Eckman con l’ottimo “Where The Spirit Rests”, preparatevi per un’altra emozionante avventura nei meandri più oscuri e intensi della musica americana.
Eckman continua a raccontare l’America con uno sguardo da esule (il musicista vive in Slovenia dopo la fine del proprio matrimonio): dopo aver riletto la musica country con lo spirito punk e alternative degli anni 80 e 90, dopo aver reso la malinconia folk più graffiante di un assolo di Jimi Hendrix, Eckman si è cimentato con il ruolo di responsabile della prestigiosa etichetta Glitterbeat, un’esperienza che sembra aver ridato slancio alla sua carriera artistica.
“The Land We Knew The Best” è uno di quei dischi di cui è inutile cercare di spiegare la bellezza. Piano, archi, basso, chitarre acustiche, violino e pedal steel vibrano all’unisono con il supporto degli archi, magistralmente arrangiati dalla compositrice belga Catherine Graindorge, ed è subito magia.
Bastano i primi accordi di “Genevieve” per essere catapultati in una dimensione musicale quasi letteraria. Sei minuti e trentanove secondi che scivolano come un racconto a fil di voce, una voce sempre adorabilmente melmosa e oscura, mentre il raffinato ed elegante corpo strumentale scivola come un outtake di “Animals” o “The Final Cut”, sottolineando subito le differenze con il precedente album.
Lì dove “Where The Spirit Rests” indugiava su toni spogli e aspri, qui Eckman amplia lo spettro sonoro con una malinconia quasi rassicurante e carezzevole, che dona luce anche ad accordi languidi di chitarra elettrica e tempi ritmici pigri (“Town Light Fade”), mentre in poche parole l'autore racchiude il senso più profondo dell’album: “The rage is gone, and the fear has calmed and the hurt has waned and the storm has quelled” (La rabbia è passata, la paura si è calmata, il dolore è diminuito e la tempesta si è placata).
E’ un album comunque corale, il nuovo progetto di Chris Eckman. Difficile immaginare la struggente “Haunted Nights” senza la pedal steel di Andraz Mazi e la voce distante di Jana Beltran, o la ballata tzigana “Running Hot” senza le acrobazie armoniche della viola di Ana Kravanja (Sirom). Ed è forse questo il motivo per il quale “The Land We Knew The Best” assomiglia a un ultimo, disperato grido dei perdenti, degli esiliati, di tutti coloro che si nutrono di solitudine. L’epica che ha sempre caratterizzato l’opera del musicista americano ha trovato in questo nuovo assetto la perfetta chiave di lettura. La magia e la poesia sono intatte come agli esordi, le canzoni sono ancora più belle e toccanti, pronte a far emergere vigore e forza anche dietro ingannevoli trame West Coast che diventano roventi appena si risveglia la ruggine di younghiana memoria (“Laments”).
E’ un Eckman quasi rassegnato, eppure audace e temerario nell’andare incontro all’oscurità più atroce con un passo lirico figlio di Leonard Cohen e Johnny Cash (“The Cranes”) prima di lasciare l’ascoltatore in compagnia di un’altra melodia indimenticabile (“Last Train Home”), perfetta chiusura per uno degli album goth-country più belli e intensi dell’ultimo decennio.
28/01/2025