Viens, viens, dans la nuit
Ton âme de géant,
Chante encore
Sécheresse
In principio fu metempsicosi, ossia la trasmigrazione dell'anima come forza motrice di una credenza che affonda le proprie radici nell'India antica e nelle
upaniṣad, funzioni esoteriche intrinsecamente legate al
karma.
Dunque la morte come inizio, mentre l'anima trasmigra da un corpo all'altro, fin quando non risulta affrancata dalla materia.
La cantautrice francese
Sophia Djebel Rose, tra le più intraprendenti dell'
underground transalpino a cavallo tra folk, canzone sperimentale e poesia d'avanguardia, torna a due anni dal ricercato "
Métempsycose" con "Sécheresse", opera che contiene nove nuovi movimenti, a formare una rinnovata liturgia, dentro la quale si spostano senza tregua demoni che paiono calarsi dalle nuvole, invocati per esorcizzare attraverso un canto verace, a tratti anche "sanguinante", isterie che riconducono più di una volta alle atmosfere tetre di divinità del passato come
Nico e Patty Waters.
Tra
riff tenebrosi e droni spettrali, "Sécheresse" trae linfa anche dalla tradizione popolare francofona. Sophia Djebel Rose fa inoltre tutto da sola e suona harmonium indiano, synth modulari e chitarre, rifilando uno dietro l'altro i suoi inebrianti proclami, come accade in "
Blanche biche", un inno eco-femminista liberamente ispirato al repertorio medievale d'Oltralpe già nel repertorio di
Veronique Chalot. È una canzone che racconta la storia di una donna che si trasforma in una cerva bianca al calar della notte e che finisce decapitata dal fratello partito per la caccia, a riprendere così in musica una favola di origine celtica, celebre ai tempi della regina Maria di Francia nel XII secolo, che la compositrice francese adatta sotto forma di una ballata acustica altamente invasata, irta di lamenti, angosce ed evocazioni poste in coda per accendere sterpaglie lungo la selva oscura che abita la sua scrittura e dentro la quale si snodano parole dense di collera ma anche piene di speranza.
Il clima dark-folk che imperversa nell'opera anima soprattutto "L'Homme au costume doré", l'altro racconto surrealista con il quale Sophia Djebel Rose agita un autentico rito di iniziazione invertito, in cui "ciò che c'è da imparare è un disimparare", come racconta lei stessa. "L'Homme au costume doré" è il funerale di un uomo dal vestito d'oro, inscenato nel bel mezzo di una serie imprecisata di allucinazioni notturne e corpi nudi che brillano al chiaro di luna.
In "Sécheresse", Sophia Djebel Rose canta per tutto il tempo come una musa ferita che tenta disperatamente di condurci in una grotta platonica nella quale il meno diventa, appunto, di più.
Ce soir sur le parvis de l'église
On enterre l'homme au costume doré
Et dans la voiture noire
Disparaît à jamais la mémoire
De l'homme au costume doré
Per dar corpo alle sue movenze, la Djebel Rose tende quindi ad agire anche per sottrazione, e di conseguenza a ricamare le proprie tele senza orpelli di troppo. Perché "Sécheresse" è in fin dei conti un mantra elettro-folcloristico quasi scevro da diavolerie moderne, retto perlopiù dal canto infestato e da pochi accordi alla chitarra che bramano nell'ombra come segugi rabbiosi.
In questa danza di partiture lugubri e arcani rituali, non mancano poi episodi ipnotici, elettrificati negli istanti finali addirittura con un'inedita "pace", come la conclusiva "Les noyés", episodio a metà tra
Heather Leigh Murray,
Valet,
Anna von Hausswolff e
Diamanda Galas. L'ultimo rituale fuori dalle lancette della contemporaneità di un cerimoniale esaltante.
01/02/2025