Da Nico a Buffy Sainte-Marie passando per Diamanda Galás. E ancora Heather Leigh Murray e Valet. Se i riferimenti spesso lasciano il tempo che trovano, nel caso della musica di Sophia Djebel Rose diventano necessari. Sia perché lo stile della polistrumentista francese fonde rituali talvolta antichissimi, squarci rock e folate dark, sia perché non è mai semplice introdurre il misticismo che si cela dietro le sue parole. Dalla regione di Alvernia, di origine franco-marocchina, Sophia Djebel Rose è una predestinata. Uno spirito libero fin da bambina, quando afferma di voler diventare una scrittrice per esprimere la bellezza della terra. Ecco: il richiamo della foresta, il battito delle Alpi e quello degli animali selvatici formano il tridente d’attacco delle composizioni di Sophia. Una dimora, la sua, vissuta dentro un esilio permanente, che lei stessa definisce “specifico di un'infanzia condivisa tra due paesi”. Terminati gli studi di letteratura e filosofia a 23 anni, Sophia decide di lasciare tutto per una vita nomade. E sposa un radicalismo verde che sarà anche cifra di molti suoi testi. “Perché la poesia ha senso solo se si realizza nell'azione”, afferma a più riprese.E' uno stile di vita che la porta a vivere anni di vagabondaggio attraverso l'Europa, il Maghreb e il Medio Oriente, dove si è esibita con il duo folk sperimentale An Eagle in your Mind, nome che rievoca l'omonima traccia dei Boards of Canada contenuta in "Music Has The Right To Children", in cui Sophia canta e suona l'harmonium indiano. Senza alcuna formazione musicale, segue poi opportunamente l'istinto: che si tratti di una chitarra o di un piano poco cambia. Sophia cresce artisticamente nell’underground meridionale francese, avvolta e protetta dalla sua incrollabile fede per i margini. Una sorta di religione che la porta nel tempo a sperimentare senza soste, sempre di più, fino a intraprendere la carriera solista, accompagnata nelle prime fasi solo da una chitarra. Nel 2020 pubblica due composizioni sull'etichetta inglese Reverb Worship specializzata in edizioni ultra-limitate e weird folk. E’ il preludio all’album d’esordio, Métempsycose, pubblicato nel 2022. Sophia Djebel Rose scrive le sue canzoni rimanendo isolata per giorni nelle impenetrabili foreste del Massiccio Centrale francese. Foresta e fauna. Gli altopiani dell'Alvernia sono infatti lo spazio naturale dove la musicista transalpina cuce i suoi spartiti come vesti di un cerimoniale insondabile. Musiche per luoghi fuori dal tempo, in cui la vetta del monte Puy de Sancy è il ponte ideale da cui sfiorare le nuvole e immergersi nel trascendente.
Métempsycose racchiude nove canzoni con cui la Djebel Rose accompagna i propri demoni tra i sentieri e riprende come una Gretel cresciuta i sassolini disseminati finora nella sua vita. Ballate per anime vaganti, dunque. A metà, appunto, tra la Nico di "Desertshore" e Valet. Momenti in cui la speranza indossa i panni di uno spettro che si aggira nel bosco. Le anime selvagge sono infatti omaggiate a più riprese. Come tutto ciò che resta nell'ombra delle periferie montuose, nei chiaroscuri di esistenze dimenticate. Il titolo, in italiano "metempsicosi", sottintende la trasmigrazione dell'anima come suggestione motrice. Mentre la musica riporta a galla l'acid-folk dei Settanta, che Sophia riveste di pathos sibillino. Ne è prova il lirismo ora disperato per le tragedie dell'uomo, altrove estasiato dalla grandezza del creato.
Sophia canta di libertà affondate ("Libertè") ed evoca la Venere di Botticelli per farne una musa impertinente ("Venus"). Quando poi entra in scena l'organetto, apre le porte di una cattedrale all'aperto ("Le Diable et L'Enfant"). Tra lacrime e preghiere, si resta, infine, ipnotizzati dalla luce profonda trasmessa in "Blanche Canine". Le melodie scarne, il timbro sciamanico, la voce afflitta, da matrona ferita, esplicano nel complesso un sentimento impenetrabile, eppure rivelatore. Djebel Rose cita "Illuminations" di Buffy Sainte Marie come capolavoro guida delle proprie canzoni. Un disco cicerone importante, a cui si aggiunge la spontaneità di una scrittura priva di effetti speciali.
Segue un tour europeo forsennato, denso di prove esaltanti, nei club più tenebrosi del vecchio continente, nei quali la cantautrice allestisce la propria liturgia da sola, in balia di demoni e farfalle. Dopo una sincera e doverosa pausa nel bosco, a febbraio 2025 la Djebel Rose torna con il suo secondo album, Sécheresse e in cui fa ancora tutto da sola, forte anche dell’esperienza maturata nei concerti: dall’indian harmonium ai modular alle chitarre. Se in principio fu metempsicosi, ossia la trasmigrazione dell'anima come forza motrice di una credenza che affonda le proprie radici nell'India antica e nelle upaniṣad, funzioni esoteriche intrinsecamente legate al karma, con Sécheresse Sophia verte alla siccità come espediente per abbeverarsi da un calice perduto, attraverso nove nuovi movimenti in cui gli spettri paiono calarsi dalle nuvole, invocati per esorcizzare grazie a un canto verace, a tratti anche "sanguinante", isterie che riconducono più di una volta alle atmosfere tetre di divinità del passato come Patty Waters.
Tra riff tenebrosi e droni spettrali, Sécheresse trae linfa anche dalla tradizione popolare francofona. Sophia Djebel Rose si dimena e si culla tra l'immancabile harmonium, modulari e chitarre, rifilando uno dietro l'altro i suoi inebrianti proclami, come accade in "Blanche biche", un inno eco-femminista liberamente ispirato al repertorio medievale d'Oltralpe già nel repertorio di Veronique Chalot. È una canzone che racconta la storia di una donna che si trasforma in una cerva bianca al calar della notte e che finisce decapitata dal fratello partito per la caccia, a riprendere così in musica una favola di origine celtica, celebre ai tempi della regina Maria di Francia nel XII secolo, che la compositrice francese adatta sotto forma di una ballata acustica altamente invasata, irta di lamenti, angosce ed evocazioni, poste in coda per accendere sterpaglie lungo la selva oscura che abita la sua scrittura e dentro la quale si snodano parole dense di collera ma anche piene di speranza.
Il clima dark-folk che imperversa nell'opera anima soprattutto "L'Homme au costume doré", l'altro racconto surrealista con il quale Sophia Djebel Rose agita un autentico rito di iniziazione invertito, in cui "ciò che c'è da imparare è un disimparare", come racconta lei stessa. "L'Homme au costume doré" è il funerale di un uomo dal vestito d'oro, inscenato nel bel mezzo di una serie imprecisata di allucinazioni notturne e corpi nudi che brillano al chiaro di luna.
In Sécheresse, Sophia Djebel Rose canta per tutto il tempo come una musa ferita che tenta disperatamente di condurci in una grotta platonica nella quale il meno diventa, appunto, di più. Per dar corpo alle sue movenze, la Djebel Rose tende quindi ad agire anche per sottrazione, e di conseguenza a ricamare le proprie tele senza orpelli di troppo. Perché Sécheresse è in fin dei conti un mantra elettro-folcloristico quasi scevro da diavolerie moderne, retto perlopiù dal canto infestato e da pochi accordi alla chitarra che bramano nell'ombra come segugi rabbiosi. In questa danza di partiture lugubri e arcani rituali, non mancano poi episodi ipnotici, elettrificati negli istanti finali addirittura con un'inedita "pace", come la conclusiva "Les noyés", che fa pensare anche ad Anna von Hausswolff. E' l'ultimo rituale fuori dalle lancette della contemporaneità di un'operetta esaltante e messa in scena da una delle musiciste più autentiche del firmamento elettro-folk contemporaneo.
Métempsycose (Self Release, 2022) | ||
Sécheresse (WV Sorcerer Productions, Ramble, Oracle, 2025) |
Le palais (da Métempsycose, 2022) | |
Le diable et l'enfant (da Métempsycose, 2022) | |
Liberté |
Bandcamp |