In principio, c’erano i Clone Defects, intriganti seguaci del verbo Stooges e di tutta quell’accozzaglia punk & dintorni che durante gli anni Settanta fece sfracelli un po’ ovunque. A guidarli un vero animale da palcoscenico: Timmy “Vulgar” Lampinen, lunatico quanto basta per chiudere baracca e burattini dopo un paio di dischi e varare, nel 2004, un nuovo ferocissimo progetto, intraprendendo l'attraversamento arty di uno dei sound garagisti più scalmanati, fracassoni e dementi che la storia ricordi.
Racconta quel buontempone di Timmy: “Io e Johnny (Lzr, il tastierista; ndr) ci incontrammo a un concerto dei Clone Defects e, quando terminai l'avventura con quest’ultimi e venni a sapere che aveva degli strani pedali per produrre rumori, decisi subito di iniziare a suonare con lui. Invece, Billy (ovvero, Hurricane William a.k.a. Billy Tornado – batteria, percussioni, sax; ndr) lo incrociai qui a Detroit, al Magic Stick e gli dissi: “Hai tutta l’aria di essere un batterista” e lui: “Si, sono un batterista”… e dopo qualche prova mi venne subito da dire: “Porca puttana! E’ lui l’uomo giusto!”
Con l’arrivo di Thommy Hawk al basso, nacquero, così, gli Human Eye. E le scintille fecero finalmente divampare un fuoco accecante, innalzando la band al pari delle migliori compagini del Michigan. Ormai stanco del solito rovistare punk, Timmy aveva deciso, una volta per tutte, di mettere a soqquadro le sue principali ispirazioni: “Mi ero rotto le scatole di quei due-tre accordi... Adesso, tutto quello che è strano e folle può influenzarmi…”.
Legati a doppio filo alle esperienze più "out" e imprendibili della new wave americana (per intenderci, quella sotterranea e sperimentale dei vari Chrome, Mirrors, Screamers, Debris’, etc., dove, spesso e volentieri, l'elemento punk entrava dolorosamente in rotta di collisione con una furibonda verve distruttiva, tappezzando il suono di sintetici schiamazzi lo-fi e fendenti from outer space), il quartetto di Detroit fu immediatamente accalappiato dalla losangelina In The Red, esordendo nel 2005 con l'omonimo Human Eye (12 brani; 31:32) registrato con la collaborazione di Ryan Sabatis dei Piranhas.
Adoratori del caos, tenaci investigatori di universi paralleli, calati in un'atmosfera svaccata ("First Taste Of Crime"), gli Human Eye dichiarano, con questo capolavoro di garage-punk artistoide e alieno, che la pazzia è l'unico rimedio al grigiore dei giorni sui giorni. Ed è, allora, tutto un susseguirsi blasfemo e farneticante di inferni sonici. Come se i Debris’ rifacessero i Ramones, in piena crisi d'astinenza. Stop & go, analfabetismo punkettone, colate cacofoniche ("Seymour"). Scatenati allunghi psycho-blues azzannati da chitarrine vertiginosamente fuori fuoco: fuori di testa (la title track).
L'ombra degli Half Japanese incombe sul voodoobilly tossico e storpio di "Car Was Alive". La testarda applicazione di canoni altri alle forme basilari del punk fa il paio con un piglio ironico, svelatamente beffardo. Un “punk” vivo e vegeto, che brulica vita e dissemina goliardia nella mischia farraginosa Chrome/King Snake Roost di "Girl Namned Troble". Cumuli di immondizia partoriti dalla civiltà della popular music che insegue sogni di gloria e di neo-avanguardia al rovescio tra le scorciatoie del cervello.
Gli Human Eye sono l'unica band (insieme ai grandissimi Six Finger Satellite degli esordi) capace di avvicinare il suono della coppia Edge/Creed e di rinvigorirlo, liberandone ogni residuo brandello di follia con un assalto dadaista ("Age"). Deliri e propulsioni interstellari ("Chew Rat Meat"), bolge e tappeti eroinomani, detonazioni furibonde. I cyborg che non ci stanno e massacrano tutto. E l'uso forsennato, poi, di "elementi aleatori" (bollicine di synth, metalliche conflagrazioni, fuochi di sbarramento, etc.) come da manuale Pere Ubu.
Timmy "Vulgar" è l'ennesima maschera dell'anti-vocalist: un mostro; un attore blasfemo nel teatro della crudeltà delle sue emozioni più viscerali. Un Beefheart messo a pane e junk-culture (si ascolti il bailamme "industriale" di "Kill Pop Culture" - "I'm gonna kill Eminem with a pair of sheers/ Electrical rollium guitar attack with ear piercing noise" - i fendenti, gli sconquassi e i vortici insani di un suono deformato senza pietà e si tenti di capirci qualche cosa con la sola forza della ragione…). Uno sciamano strafatto di acido alla testa di una banda di trogloditi, che brandisce strumenti musicali come fossero asce di guerra ("Episode People"), lasciandosi dietro un lungo sentiero di orrori, fino al free-rock logorroico di "Tim Continuum".
Trogloditi che, quando meno te lo aspetti, ti sorprendono con meraviglie avant-jazz, pensate come immondo buco nero, sudicia poesia dello scarto "sonoro", lercia frenesia che trasferisce tutta la sua astrattezza nell'ennesima bolgia anfetaminica ("Sly Glass Foam", introdotta da un glorioso conciliabolo di free-jazz cosmico). Un viaggio nei recessi più radicali e creativi del rock. Un viaggio senza ritorno: "Extraterrtrial March".
Pubblicato questo capolavoro, la band gira il mondo portando in dote il suo show indiavolato (“voglio mettere su il più grande live-set che si sia mai visto in giro”, dichiara, megalomane, Timmy), ritrovandosi in sala di registrazione soltanto nel 2007 (con la new entry Brad Hales al basso), per registrare il 7” Dinosaur Bones e i due singoli Spiders and Their Kin/ Desperate Hands e Rare Little Creature/Self Transforming Machine Elves, tutta roba più o meno interessante che, se da un lato contribuisce a rigurgitare certe reminiscenze Clone Defects (si veda, ad esempio, la “Hologram” contenuta su “Dinosaur Bones” o “Spiders And Their Kin”), dall’altro indica già nuove direzioni, nuovi mondi da esplorare (eccezionale, per dire, la zuffa siderale di “Self Transforming Machine Elves”, una delle loro vette assolute).
Così, mentre si diffonde la notizia che la band è alle prese con le registrazioni di un nuovo disco, nella prima metà del 2008 esce, autoprodotto, l’antipasto di Serpent Shadow, un Ep in formato cd-r contenente tre brani (per scarsi ventitré minuti di musica) in cui la band opera una straniante dilatazione lisergica del suo sound, evidenziando, di sfuggita, anche una misteriosa impronta sciamanica. Tuttavia, a tenere saldi i legami con il recente passato, ci pensa subito l’iniziale “Vagobon”, con la sua stralunata poltiglia di space-rock e mucillagine lisergica.
Poi, con la title track, siamo catapultati nel bel mezzo di una jam dissennata e fuori fuoco, registrata con qualche walkman da quattro soldi e tutta interessata a mostrare un ipotetico scambio di vedute tra lo Jad Fair dei primi anni Ottanta e gli Stones più lerci. E, forse, fa ancora meglio, in fatto di “alienazione”, una “Universe Nurse” catturata dal vivo in Danimarca: il palco è un vero e proprio campo di battaglia e il buon Timmy finisce davvero per apparire, in più di un momento, come un novello satanasso invaghito di strane pillole colorate. Insomma: ancora un gran bel sentire, anche se, a conti fatti, non tutto funziona sempre alla perfezione.
Attesissimo, all’inizio di agosto viene finalmente pubblicato dalla Hook Or Crook di Oakland l’annunciato Fragments Of The Universe Nurse (10 brani; 42:58), disco in cui i ragazzacci tornano sul luogo del delitto con la solita feroce spavalderia: ed è ancora sballo anfetaminico art-garage/punk, ma con un gusto per l’allucinazione elettrica e per l’assemblaggio brutale di corpi musicali vaganti ancora più scioccante e disarticolato.
Come in un incubo deleterio fatto di proto-wave malsana (anche gli Electric Eels, per dire, rispondono all’appello), devoluzione a go-go, labirinti di follia sonica a-là Men’s Recovery Project e un cocktail di junk-culture e spasmi sci-fi sempre più infetto, gli Human Eye procedono spediti, lerci e spiritati attraverso un pandemonio di diaboliche, fluorescenti infatuazioni, trasformando gli spietati deliri dell’esordio in un caleidoscopio avveniristico di epilessi frastornanti, scosse intergalattiche Hawkwind (“Slop Culture”), laser Godzilla e viluppi di corde insanguinate - Arto Lindsay, se ci sei batte pure un colpo o due… - (“Gorilla Garden”). E, alle loro spalle, un deserto di macerie fumanti, città fantasma in cui radioline gracchianti trasmettono uno dei garage-punk più deteriorati e brutali di sempre, mentre gli ultimi brandelli di umanità svaniscono interrogandosi sul senso di questa vita di merda (“Salimander Soft Shoez”, abominio Honeymoon Killers con claudicanti vertigini primitiviste).
In questi baccanali forsennati e viscerali, le tastiere tratteggiano spirali filiformi-impazzite, le accelerazioni sono repentine e maniacali (materializzando, in “Two Headed Woman”, l’Iguana in preda all’elettroshock), gli strumenti caracollano al passo di ramalama cafoni (“Step Into New Dimensions”) e, in “Lightning in Her Eyes”, lo svacco adolescenziale scivola lungo il crinale di un grottesco simil-mediorientale che fa tanto Tragic Mulatto, periodo “Hot Man Pussy”. Poi, parte “Dinosaur Bones” e la rivelazione è definitiva: synth-punk freakedelico da urlare a squarciagola… perché roba come questa potrebbe, prima o poi, fare da colonna sonora al vostro sacrosanto giorno di ordinaria follia.
E’ chiaro, insomma, che la coscienza di questi signori sia un tantinello alterata: strane creature ne popolano le menti, come inquilini brutti, sporchi & cattivi, tanto che, noi stessi, credendoci immuni, finiamo invischiati nella tela circolare di “Rare Little Creature”, per ritrovarci sepolti dentro un girone infernale, con Timmy sempre pronto a punzecchiarci le chiappe con un forchettone arroventato...
Non un attimo di tregua: un bombardamento a tappeto, un groviglio di cazzotti in pieno volto, un'efferata, irrefrenabile tempesta di eccitazione. Fino all’epica processione ritualistica di “Poison Frog People”, fiera e spaccona al passo di percussioni marziali, lasciando, infine, alla title track l’onore di tirare giù (nel vero senso della parola) il sipario, tra fuochi d’artificio, suoni minorati, inondazioni truculente di organo e chitarre spaccate al suolo senza pietà.
Dopo la parentesi di Rise Of The Green Gorilla con il side-project di Lampinen Timmy’s Organism, nel 2011 esce, per la Sacred Bones, They Came From The Sky (8 brani; 30:26), album che aggiunge poco o nulla alla formula. Tuttavia, resta alto l'appeal delle loro stralunate/strampalate/orgiastiche jam in cui tutto, da un momento all’altro, può succedere, sbandando pericolosamente per poi ritrovarsi su highway intergalattiche, dove gli alieni guidano contromano e gli asteroidi sfrecciano più impazziti che mai. L’impatto psichedelico si traduce, quindi, in una forma di visionarietà alterata (“Brain Zip (Kickin’ Back in the Electric Chair)”), entrando in rotta di collisione con i trip spaziali degli Hawkwind (“Impregnate the Martian Queen Pt. 2”, che vanta un lavoro percussivo più accentuato, grazie all’uso delle congas) e con la sacra diade MC5-Stooges (l’infernale e dinamitarda “Junkyard Heart”). Accentua il versante più ipnotico della loro arte, invece, “The Movie Was Real” e, in parte, anche “Serpent Shadow”. I sei minuti della conclusiva title-track condensano, invece, tutti gli ingredienti di un suono ormai pienamente maturo.
Nel 2013, è la volta di 4: Into Unknown, con cui Timmy pensa bene di allargare la gamma delle soluzioni, presentandosi subito con uno swamp-rock sotto mentite spoglie che armeggia con eccessi lisergici (“Gettin’ Mean”). La solita ruvida sguaiataggine e un piglio ubriaco mai veramente fine a se stesso impregnano da cima a fondo un disco assolutamente godibile, incapace di raggiungere le vette del passato, eppure sempre maturo nello scegliersi gli abiti giusti dai più diversi guardaroba.
Sfilano, dunque, omaggi-oltraggi ai Rolling Stones (“Alligator Dance”), ballate al chiaro di luna, ma con la luna ad un paio di metri (“Immortal Soldier”, la cui coda chitarristica insegue nostalgie cosmiche), folk-rock dell’iperspazio (“Surface Of Pluto”), gli Stooges della “cruda potenza” (“Buzzin’ Flies”) o i Cramps ingrassati (“Juicy Jaw”). In coda, i brani più lunghi: “Outlaw Lone Wolf”, in cui Timmy tenta la carta dell’epica western, dai tratti progressivi, con la storia di un orfano che, allevato dagli Apaches, finisce per diventare un grande guerriero; "Into Unknown", uno strumentale contemplativo che riattraversa, dall’alto, tutto il cammino fatto, mirando, oltre lo sfondo, lo spirito caleidoscopico di un passato sonoro senza limiti, infiorettato da una serie infinita di scarabocchi elettrico-elettronici, nel solco della new-wave americana più fricchettona.
Nel grande calderone del revival punk-garagista - che negli ultimi anni ha partorito band più o meno interessanti (Hunches, Piranhas, Reigning Sound, i primi Hospitals, etc.) - gli Human Eye continuano, insomma, a mantenere alto il vessillo di un suono tremendamente personale, capace di trasfigurare l’alienazione umana in un perpetuo, incandescente anelito alla dissoluzione.
Human Eye (In The Red, 2005) | 8 | |
Dinosaur Bones (7'', Ypsilanti, 2007) | ||
Spiders and Their Kin/Desperate Hands (singolo, Cass Records, 2007) | ||
Rare Little Creature / Self Transforming Machine Elves (singolo, Disordered Records, 2007) | ||
Serpent Shadow (autoprodotto, 2008) | 6 | |
Fragment Of The Universe Nurse (Hook Or Crook, 2008) | 7 | |
They Came From The Sky (Sacred Bones, 2011) | 6,5 | |
4: Into Unknown (Goner Records, 2013) | 6 |
In The Red Records | |
Hook or Crook | |
Myspace |