Epilogue, 1993-2021. E una data, 22 febbraio 2021, a sancire la fine di un idillio.
Dunque, i due francesini più esplosivi della musica popular degli ultimi trent'anni hanno deciso di accendere il detonatore e farsi saltare artisticamente in aria. Per sempre, o più semplicemente fino a quando converrà. Un epilogo improvviso? Tutt'altro. La fine in vista di un nuovo principio era dietro l'angolo. E i segni di stanchezza alla luce del sole. Basti pensare soltanto alla scelta di ripescare un estratto da "Electroma" per annunciare l'uscita di scena. Un'idea mediaticamente spettacolare ma allo stesso tempo anche un chiaro messaggio di esaurimento pressoché totale della benzina.
Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, per il pianeta i Daft Punk, in origine "a bunch of daft punk" ("un gruppetto di stupidi teppisti"), come furono sciaguratamente definiti su Melody Maker, hanno quindi salutato il sistema solare senza fornire elementi su cosa accadrà in futuro. Si potrebbero improvvisare teorie sulla dinamica del gesto, analizzare ogni singolo fotogramma, addirittura scegliere il silenzio in segno di un imprecisato rispetto verso la strada intrapresa, direzione in fin dei conti nota ai più dalla notte dei tempi. Non è un mistero, infatti, che i due preferiscano rimanere in disparte, ben riparati dietro i caschi, a reinterpretare fin dai primi istanti della loro avventura discografica un'estetica che collega Robert Wise, i coniugi Anderson, Bruce Bethcke e la sua teoria sul cyberpunk. E l'incipit di "Neuromante" di William Ford Gibson, "Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto", basta e avanza per quantificare semanticamente la genesi e l'epilogo sociologico dei due, senza complicarsi troppo la vita con piroette narrative degne di un Lello Mascetti 4.0. Così come sarebbe inopportuno ricordare ai più i padri putativi, a partire dai Superobots che in "Supercar Gattiger" rileggono l'eterno e irraggiungibile Morricone di "Dance On", e via discorrendo.
Ora più che mai corpo e anima suggeriscono di ancorarsi ai ricordi, alla musica tout court, con il semplicissimo intento di provare umilmente a fissare qualche paletto significativo per i posteri, ovvero per i giovanissimi che non hanno ancora avuto il piacere di esplorare la loro magia. Una parabola, quella dei Daft Punk, celebrata in tutte le salse, a cominciare da questi stessi lidi: pietra miliare, miglior disco del decennio Zero, simbolo indiscusso del french touch e così via. Le investiture si sono sprecate ad ogni occasione. E quella un po' triste del momento suggerisce di salutarli, in attesa di nuove esperienze, andando a ripescare sette mo(vi)menti particolari della loro carriera. Sette passaggi topici. Sette vibrazioni per conoscerli meglio. Per inquadrarli a seconda dei periodi vissuti. Nessun'altra velleità nascosta, né l'assurda pretesa di definire il meglio o la presunta ambizione di ridurre una carriera stratosferica in sette fasi. Perché la luce dei Daft Punk è stata totale. E le variazioni di intensità fanno parte del pacchetto. Siamo "umani dopotutto".
Au revoir, Daft Punk.
"Assault" (1994)
Non si può pensare di rivoltare il mondo senza aver prima messo a soqquadro il proprio universo. Nel caso specifico senza aver prima assaltato il garage di famiglia con una console usata e qualche manopola malandata. "Assault" è questo ed è anche il primo amore di due giovani dipendenti della Fnac di Parigi per quella cosa chiamata acid-techno, acid-house o più banalmente per tutto l'acido da sversare con irriverenza sopra i cocci della disco music. È ancora presto per definire il modello ultimo. Il sound personale con cui fare breccia nel cuore della gente e nelle casse del club. Non c'è traccia dello sguardo all'indietro, del volteggio selvaggio e della vocazione punk che tre anni dopo investirà il pianeta. Sono "solo" i primi istanti del big bang. Quando tutto è ancora unito e il passo non può essere che quello del discolo. Sei minuti di coatta insistenza. Ci sono i semi gentilmente concessi per mano da Zdar e de Crécy. C'è la materia grezza. La nuda visione. Del resto, come direbbe un celebre scultore, "l'immagine è dentro, basta soltanto spogliarla".
"Indo Silver Club" (1996)
"Part One" e "Part Two", quattro minuti scarsi la prima e poco sopra i quattro la seconda. Ripresi come i due comandano e modellati in un'unica versione definitiva nella seconda metà del piatto di "Homework". Certo, quest'ultima è molto più vicina alla seconda. Ma è nel battito grezzo della prima che prendono forma le prove generali di quell'alchimia che di lì a poco cambierà le sorti del duo. L'accelerazione magica su base acida che farà epoca. Il 1996 è, in fondo, l'anno della gestazione. E se "The New Wave" ha definito due anni prima la cifra underground con spedito richiamo house da modellare in seguito seguendo i passi della disco music della seconda metà dei 70, riadattata alla propria maniera e secondo una nuova estetica futurista, "Indo Silver Club" è il soundcheck perfetto del party per antonomasia. La festa privata prima del rave collettivo.
"Burnin'" (1997)
Della serie nomen omen. Il Saturno 5 si accende e si solleva dal suolo. E stavolta lo fa da Parigi, altro che Cape Canaveral. È infatti uno dei momenti più alti di "Homework". Come se a scratchare fosse una macchina. Un androide impazzito. Il tutto, prima di azionare il groove a 110 secondi esatti dall'inizio. Quel groove. Un giretto tanto semplice quanto irresistibile. Farebbe muovere chiunque. "Burnin'" è la traccia più clubbing dei Daft Punk primo capitolo. Non c'è verso di venirne a capo diversamente. Ascoltarla implica azionare in un modo o nell'altro una qualche movenza. Cosa sia a muoversi non importa. L'importante è non rimanere fermi. Pena l'evidente appartenenza a una razza aliena. Sette minuti scarsi in cui l'ansia si fa gioia. Stop&go apparenti per camuffare l'effetto ridondante costantemente sullo sfondo. Un trucchetto che i due perfezioneranno nel tempo e fino allo sfinimento. Sono quelle ricette semplici ma che pochi sanno cucinare alla grande, senza scadere subito nel cattivo gusto. È la nouvelle cuisine di due chef con il casco al posto del toque.
"Veridis Quo" (2001)
Bisognerebbe prendere ogni momento di "Discovery" e inserirlo in questo speciale. Inutile precisarlo. È il disco con il quale i due hanno aperto le porte della loro navicella spaziale al mondo, grazie anche al video animato che introdurrà "Interstella 5555", film d'animazione del 2003 creato da Leiji Matsumoto e interamente ispirato al capolavoro musicale in questione. Si potrebbe e si dovrebbe partire da "One More Time", la hit di tutte le hit dei francesi, e conficcarla a terra come la bandiera di Neil Armstrong sulla luna. Ma se c'è un episodio che in qualche modo definisce uno spartiacque in un album che le acque riuscì ad aprirle come Mosè ai piedi del Mar Rosso, questo è "Veridis Quo". La sempreverde "Supernature" di Marc Cerrone è rallentata dal duo mediante un amplesso estatico e moroderiano che anticiperà futuri movimenti musicali atti a riprendere sonorità disco delle seconda metà dei Settanta, come quello creato nel 2006 da Johnny Jewel e dalla sua Italians Do It Better Records. Memorabile è la sinfonia rinascimentale che scende in pista con grazia. Uno dei mo(vi)menti più alti della loro carriera, a prescindere da ogni considerazione possibile.
"Digital Love" (2001)
L'amore in accezione digitale. E non potrebbe essere altrimenti. Composta con l'acclamato produttore chicagoiano Carlos Sosa, meglio noto come DJ Sneak, "Digital Love" è un affresco da cui affiora una briosa sensualità elettro-house. Una hit caldissima che animerà tramonti e party estivi in ogni angolo del Vecchio Continente (e oltre). Non solo. Il brano è la prova schiacciante di come i Daft Punk sappiano estrarre chirurgicamente cinque secondi di una canzone del passato, nel caso specifico "Love You More" di George Duke datata 1979, prolungarli all'infinito e investirli con la propria luce. Una magia che si ripete con risultati perlopiù spettacolari. "Digital Love" possiede però qualcosa che le altre alchimie non hanno. La porzione ha un ingrediente in più. È l'estasi indefinibile che pervade ogni suo istante. Una scarica di fotoni pazzesca. Il verbo è sollevarsi dalla pista e volare via, altrove. Dancefloor per angeli felici e "nulla più".
"Derezzed" (2010)
La discesa sulla Terra di "Human After All" precede di un lustro l'episodio in questione. Già, perché l'AOR per androidi fuori tempo massimo di "Robot Rock" e la pacchiana "Television Rules The Nation", variazione su tema di un'inclinazione orwelliana francamente stancante da qualsiasi punto di vista, indicano assieme agli altri otto momenti del disco più discusso dei Daft Punk una tappa poco riuscita. Succede e va bene così. Al netto degli emuli futuri. Si vola quindi dritto al 2010. Al contratto milionario con la Disney per "Tron Legacy". Sarebbe a dire il vero un'altra uscita tutt'altro che gradita. L'orchestra con gli archi grassoni cozza troppo con lo spirito nerd. Una prova soporifera, inutile quanto la pellicola che punta a musicare. C'è però un momento in cui i francesi tornano in sé, abbandonando i panni che poco si addicono al loro guardaroba. "Derezzed" è l'ultimo colpo di coda di una visione disco-pop inaugurata in "Discovery". Una scheggia lanciata in quattro quarti e spedita oltre l'orbita terrestre. Due minuti scarsi di rotazioni sintetiche e pause a casaccio che fungono da aperitivo all'incombente futuro. Quello che li porterà a sedersi allo stesso tavolo di Giorgio Moroder e Nile Rodgers.
"Touch" (2013)
Il disco dei ricordi è dopotutto il vero epilogo. Le memorie ad accesso causale indicano l'ultima connessione con questo mondo. L'ultimo saluto prima di dileguarsi nel deserto, farsi esplodere e lanciare il messaggio a otto anni luce di distanza. Nell'album delle hit per antonomasia, dalla fortunatissima "Get Lucky", chichiana fino al midollo, alla sensazionale "Instant Crush" con quel mattacchione sempre in gran forma di Julian Casablancas, fino all'amplesso con zio Giorgio, o Re Giorgio (quello vero, sia ben chiaro, non quello politico) in "Giorgio By Moroder", c'è un momento in cui i due raggiungono il punto G della loro carriera. "Touch" è il sogno di Guy-Manuel de Homem-Christo accarezzato con l'amicone Sebastien Tellier in "Sexuality". È l'erotismo secondo i Daft Punk. Sic et simpliciter. Non è un caso che sia anche la traccia scelta per salutare tutti. "Touch" è l'orgasmo definitivo. L'esplosione che anticipa la gioia. La luce del sole sullo sfondo di uno scenario in cui il tempo sembra non avere più fretta, facendo finalmente pace con sé stesso. Mentre il coro degli angeli sopracitati poc'anzi canta dall'alto dei cieli parole di amore universale. C'è una nuova casa che aspetta solo di essere vissuta e la speranza è di visitarla tutti quanto prima.
Home, hold on, if love is the answer, you're home
Hold on, if love is the answer, you're home