Cinquant'anni di Rimmel

Cosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure di Francesco De Gregori

L'anniversario

Fra le pagine chiare e le pagine scure rimane un disco che ha appena compiuto cinquant’anni di vita. Decisamente ben portati. Uscito nel gennaio 1975, “Rimmel” fu l’album del boom di Francesco De Gregori, fino ad allora considerato solo un promettente ma acerbo virgulto del Folkstudio. Un botto da mezzo milione di copie vendute per un disco destinato a diventare quasi un “greatest hits” per la quantità di classici racchiusi al suo interno. E pensare che il suo autore rimase quasi spiazzato dal suo successo, arrivando a confezionare il successore – l’altrettanto epocale “Bufalo Bill” - in modo fin troppo scarno ed essenziale per “punirsi” di aver venduto troppo… “Roba da matti!”, come avrà modo di commentare qualche anno dopo. Eppure, in pieno fervore ideologico di marca 70’s, non mancarono critiche proprio all’approccio che ispirava quei nove brani, ritenuto poco confacente a un cantautore con la K, quale il clima plumbeo dell’epoca pretendeva che fosse Francesco De Gregori.

A sbatterlo per primo sul banco degli imputati fu il critico musicale Giaime Pintor, in un articolo per Linus dal celebre titolo “De Gregori non è nobel, è rimmel, accusandolo di farsi portatore di “pseudo-cultura liceale” attraverso quella che definiva “una poetica ermetica, dell’intuizione lirica, una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra… dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrice di valori positivi e rivoluzionari”. Parole di un altro secolo, ma che sembrano appartenere direttamente a un’altra era geologica. Con tanto di conclusione finto-ironica ma violentissima: “Francesco De Gregori, mo’ te tirano li pomodori”. Peccato che vi sarà chi passerà dalle parole ai fatti.
Del resto, De Gregori, oltre a scrivere sdolcinati valzer musette come “Buonanotte fiorellino”, aveva altre pessime abitudini. Tipo frequentare i quartieri alti delle hit parade. Oppure voler farsi pagare per i concerti. Roba imperdonabile per i circoli radical-chic di Lotta Continua. Anche se un giovane militante destinato a un importante futuro politico, Luigi Manconi, nascosto dietro lo pseudonimo Simone Dessì, giungerà in soccorso, con un articolo semiserio – “Variazioni (in do di petto) sul canto De Gregoriano” – volto proprio a smontare le argomentazioni di Pintor. Ma varrà a poco. Sotto questa coltre opprimente di dogmi, preconcetti e requisitorie, si consumerà infatti l’evento più doloroso della carriera di De Gregori, il 2 aprile 1976, quando al Palalido di Milano un centinaio di facinorosi, radunatosi sotto il palco, lo sottoporrà a un durissimo “processo”, accusandolo di speculare con le canzoni politiche e di intascare lauti guadagni. “Suona per i lavoratori, non ti mettere in tasca i soldi… Quanto hai preso stasera?” gli urla un giovane. “Credo un milione e due... - sussurra con un filo di voce De Gregori - ma poi c’è la Siae...”. “Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, lascia qui l’incasso”, gli ribattono. Traumatizzato, De Gregori non farà più concerti per tre anni, pensando seriamente di mollare tutto.
Questo il contesto di quegli anni, insomma, che spingerà anche il collega - e ammiratore - Roberto Vecchioni a tornare su quelle serate di follia in un brano di “Samarcanda” intitolato “Vaudeville (Ultimo Mondo Cannibale)” (“E spararono al cantautore/ in una notte di gioventù/ gli spararono per amore/ per non farlo cantare più”). Curiosamente, in un pezzo rimasto inedito di due anni prima (“De Gregori era morto”) lo stesso cantautore romano aveva quasi profetizzato l’evento: “De Gregori era morto/ ucciso dalla sua cultura borghese/ e da un forte mal di testa”.

Un destino, quello di finire nel mirino della critica oltranzista e snob, che lo accompagnerà per sempre. Come una maledizione. Basti pensare alle recenti polemiche per il disco realizzato assieme al comico Checco Zalone in veste di pianista (sacrilegio!) e per l’utilizzo di due suoi celebri brani (“La storia” e “Sempre e per sempre”) in alcuni spot dell’Enel. Stavolta senza neanche l’alibi della cappa ideologica, ci sarà chi si spingerà a scrivere: “Viene da pensare che chi contestò il Principe al PalaLido nel 1976 forse aveva le sue ragioni”. Sembra incredibile, ma è successo davvero!
In fondo, è il destino di chi se ne infischia delle etichette e cerca di mantenersi sempre libero. E De Gregori lo sa bene. Oggi, più leggero e sbarazzino di un tempo, il Principe ha trovato sul palco la dimensione ideale. Una sorta di Neverending Tour di dylaniana memoria, che, dopo la residency milanese dedicata alle "Nevergreen" (le sue canzoni meno conosciute) lo vedrà anche rievocare i 50 anni di “Rimmel”. Per festeggiare l’anniversario è in arrivo infatti una serie di concerti nei teatri, in programma a ottobre e novembre 2025, che culminerà con due concerti nei palasport, a Milano e Roma a dicembre. Nel 2026, infine, il tour si sposterà nei club.

Ma cosa rimane, dunque, tra quelle pagine in chiaroscuro incorniciate nel cammeo ottocentesco della copertina, tra vistosa carta da parati in bianco e nero? Soprattutto le canzoni, si diceva. Nove istantanee di una maturità compositiva stupefacente, che dimostravano come il timido menestrello del Folkstudio si fosse già trasformato in Principe. Un cantautore ormai maturo e disinvolto, capace di abbinare un uso spiazzante della lingua e della metrica a un sapiente dosaggio melodico. Una strada tutta personale, tra Bob Dylan ed Elton John. Suoni più arrotondati, aggraziati impasti di piano, organo e chitarre, un canto finalmente più incisivo ed eclettico, rispetto alle prime prove. Ad assecondarlo, musicisti provetti come il cantautore Renzo Zenobi, alle prese con la solista acustica, due jazzisti doc come Mario Schiano al sassofono e Roberto Della Grotta al contrabbasso, oltre al gruppo italo-inglese dei Cyan a fornire le basi, con i ritmi scanditi dal drumming di Franco Di Stefano.
De Gregori veleggia tra i brani con leggerezza di tocco e profondità di contenuti: dalla sempreverde title track, folgorante trasfigurazione della canzone d’amore tradizionale, alla ballata icastica di “Piano bar”, dal lirismo incantato del diario esistenziale “Pezzi di vetro” all’inno di lotta e di lavoro di “Pablo”, dall’apparente zuccherosità del valzer di “Buonanotte fiorellino” alle asprezze reali delle “Storie di ieri” (che si ripetono anche oggi). Sulla strada, si possono incontrare i “Quattro cani” più bizzarri del cantautorato tricolore (ma guai a cercare di individuarli in personaggi reali). Se si passa da Pescara, ci si può imbattere anche nel “Signor Hood” (un probabile, donchisciottesco Marco Pannella). E in tasca resta sempre una “Piccola mela”, anche se un po’ acerba, nella sua confezione spoglia da stornello.

Contrariamente al luogo comune, poi, De Gregori non è solo “poeta” (termine da lui mai amato) o fine narratore in versi. È anche e soprattutto un musicista che “di accordi se ne intende e si guarda bene dall’infiorettare le sue canzoni di giri di Do a caso”, cercando invece “il passaggio inaspettato” e a volte “forzando le armonie in soluzioni inaccettabili per chi ha studiato teoria musicale e rispetta le regole”, come ricorda Fabio Zuffanti su Rolling Stone, menzionando ad esempio l’inconsueto intervallo dal La-7 al Re in “Pablo” o i diminuiti in “Pezzi di vetro” e gli impervi passaggi della title track: non solo “grappoli di note”, dunque, ma “momenti in cui l’animo si incrina”.
Il risultato è un disco che rimescola le carte alla musica italiana. Vincente, ma senza trucchi. Molto più nobel che rimmel. Con buona pace di Pintor e degli altri detrattori dell’epoca. Stracciati con la fantasia.

La recensione

Un cantautore alla sbarra

Il famigerato processo subito dagli autonomi al Palalido di Milano nel 1976 non è certo l’unico nella storia di Francesco De Gregori. Inchiodato per sempre allo stereotipo del "cantautore col k", del vate dell’impegno e del rigore, il Principe è stato un bersaglio costante della sinistra radical-snob. Quella incarnata dalla più celebre stroncatura subita dal suo capolavoro: De Gregori non è nobel, è rimmel, scrive nel 1975 su Linus Giaime Pintor, figlio di Luigi (Il Manifesto) e futuro direttore di Muzak. Il suo è un vero e proprio processo stalinista, in cui De Gregori viene accusato di virare verso la canzonetta d’amore, tra “poetica da Baci Perugina” e “pseudo-cultura liceale”, rintanandosi nelle metafore per sfuggire alla dura legge del realismo e dell’impegno politico. “Una poetica ermetica, dell’intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni 70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrice di valori positivi e rivoluzionari”. Parole di un altro secolo, ma che sembrano appartenere direttamente a un’altra era geologica. E che tuttora fanno più paura che tenerezza.
Eppure, lo stesso De Gregori finirà col sentirsi in colpa per il successo del suo primo bestseller. Registrerà il successivo “Bufalo Bill” in una sola settimana, con suoni scarni ed essenziali. “Per punirmi di aver fatto Rimmel che aveva venduto troppo”, confiderà. Accadeva anche questo, nei mirabolanti Seventies.

Modernità

Quarant’anni dopo, appare fin troppo evidente come la logica di Pintor andasse ribaltata. Era proprio il suo, di approccio, a risultare superato già all’epoca, una sorta di ultimo spasmo della critica ideologica post-sessantottina, mentre “Rimmel” era un disco profondamente innovativo per il panorama cantautorale tricolore. Glielo riconosce, ad esempio, un critico dallo sguardo finemente postmoderno come Christian Zingales: “Probabilmente fino a Rimmel la canzone italiana di taglio classico non contemplava il concetto di trasfigurazione, tantomeno la canzone d’amore contemplava la possibilità di mutare il germe basico dei suoi codici fino a risuonare l’idea stessa di amore in un limbo, in qualche enigmatico altrove. Sì, c’erano state Il cielo in una stanza, Il nostro concerto e altri capolavori, ma erano ancora troppo confidenziali, troppo frenati dal tempo a cui appartenevano. De Gregori coglie l’urgenza più intima dei Settanta che stavano consumandosi e la scaraventa in un capolavoro di distanze e negazioni”. Insomma, De Gregori è il primo a scrivere canzoni d’amore senza le parole delle canzoni d’amore. Sono piccoli film, dalla trama tutt’altro che lineare, frammenti di un puzzle da ricostruire, giochi di specchi che deformano una realtà molto più ampia e indecifrabile. Un’operazione in linea con la lezione dei grandi cantautori internazionali, ma troppo moderna e raffinata perché la critica militante dell’epoca potesse accorgersene.
Il timido menestrello del Folkstudio - reduce dalle buone prove di "Alice non lo sa" e dell'omonimo ribattezzato "La pecora" - completa la trasformazione in Principe. Abbinando un uso spregiudicato della lingua e della metrica a un sapiente dosaggio melodico. Una strada tutta personale, tra Bob Dylan ed Elton John. Con suoni più arrotondati, aggraziati impasti di piano, organo e chitarre, un canto finalmente più incisivo e un intero gruppo, i Cyan, a supporto.

Amori cosmetici e valzer musette

È spiazzante, dunque, il percorso d’amorosi sensi di “Rimmel”. A cominciare dalla title track, istantanea logora di un addio, che si smarca da ogni sentimentalismo per rifugiarsi nel disincanto. Non è una confessione, è una cronaca. Ma tutto procede per indizi, per squarci narrativi. “E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure”: niente più di questo è dato sapere, in uno dei suoi più celebri incipit in medias res. La sconfitta è ammessa (“E cancello il tuo nome dalla mia facciata, e confondo i miei alibi e le tue ragioni”), ma c’è il rimpianto per quel vaticinio ingannevole: “Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma uno zingaro è un trucco e un futuro invadente”. A leggerlo bene, quasi un presagio di quel che accadrà a De Gregori: la notorietà, il baccano mediatico, il “processo” di Milano. L’amore, però, è una partita falsata, perché qualcuno ha barato (“i tuoi quattro assi, bada bene di un colore solo”). E così resta solo il tempo di un ricordo fuggente. Un’immagine di cosmetica bellezza, la “dolce venere di rimmel” immortalata in pochi tratti (“Ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona”). Il trucco e la pelliccia: lusinghe di vanità, di effimero. Belle e stridenti, come la donna ritratta nel cammeo ottocentesco della copertina, incorniciato da una vistosa carta da parati in bianco e nero. Poi, il colpo di teatro della fine. Lei che gli rivolge una domanda apparentemente innocua (“se per caso avevo ancora quella foto, in cui tu sorridevi e non guardavi”) e lui che “senza capire” annuisce, incassando la più brutale delle repliche: “È tutto quel che hai di me”. Così resta solo il sarcasmo della disillusione, incarnato in due geniali sineddoche: “Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro”.
Mai un addio era stato raccontato in modo così tagliente, beffardo, antiretorico. Alla rivoluzione del linguaggio si sposa una musicalità altrettanto moderna, d’impronta dylaniana: l'asse portante del piano a dettare un’andatura folk avvolgente, la voce calda che si distende su scale armoniche complesse, sorretta da un impasto di chitarre acustiche e batteria, le tonalità sfumate dell’hammond e i cori femminili sullo sfondo.
Suggestioni dylaniane che ricorrono, ancor più lampanti, nell’altra ballata del disco, quella “Buonanotte Fiorellino” mutuata proprio dalla “Winterlude” di Mr. Zimmermann (da “New Morning”, 1970). È una ninnananna a passo di valzer musette, volutamente zuccherosa, con tutta la sua patina di carezze e vezzeggiativi (“amore mio”, “fiorellino”, “monetina”, “uccellini”). Eppure lascia un retrogusto amaro (“la coperta è gelata e l’estate è finita”, il biglietto è “scaduto”, mentre l’anello “resterà sulla spiaggia”). Perché, in fondo, è l’altra faccia, solo in apparenza più dolce, di “Rimmel”: il racconto della fine di un amore, di una nuova disillusione che brucia (“la tristezza passerà domattina”). Tutto giocato sul filo dei ricordi e degli sbalzi affettivi, in un tripudio di “bisociazioni” stranianti (“tra il telefono e il cielo”, “tra le stelle e la stanza”, “tra i tuoi fiocchi di neve e le tue foglie di tè”).
Seconda, per fraintendimenti, alla sola “Viva l’Italia”, “Buonanotte Fiorellino” resterà una delle canzoni più amate/odiate di De Gregori, che continuerà a riproporla dal vivo, seppur in vesti diverse (dallo shuffle al rock fino all’ultima versione bandistica “Fiorellino 12#35”).

Camminando sui pezzi di vetro

E poi c’è lei. Metà canzone d’amore criptata, metà manifesto d’una vita intera. Un prodigio di nome “Pezzi di vetro”. De Gregori svelerà un possibile riferimento alle sue disavventure amorose giovanili. Ma sono dettagli irrilevanti, al cospetto di un testo che è tutto una vertigine di emozioni e sospensioni.
L’uomo che cammina sui pezzi di vetro è una figura popolare, ma non è un fenomeno da baraccone (“niente a che vedere col circo, né acrobata né mangiatore di fuoco”), è un artista di strada, spavaldo e irridente. Un “santo a piedi nudi”, che danza con tanto di benedizione di una stella personale, sotto il suo “angolo retto”:

Non conosce paura l’uomo che salta e vince sui vetri
e spezza bottiglie, ride e sorride perché
ferirsi non è possibile, morire meno che mai e poi mai

È un personaggio felliniano, un archetipo della vitalità, dell’incoscienza della giovinezza (“ha due anime e un sesso di ramo duro il cuore”). Ma è soprattutto lo spunto per raccontare l’incanto del rapimento amoroso. Una dimensione quasi soprannaturale, trascendente.

E insieme visitate la notte che dicono è due anime
e un letto e un tetto di capanna, utile e dolce
come ombrello teso tra la terra e il cielo

Camminando sui cocci aguzzi, però, ci si espone inevitabilmente alla vulnerabilità dei sentimenti, alle ferite dell’abbandono e della fugacità di quella “prima volta”.

Lui ti offre la sua ultima carta
il suo ultimo prezioso tentativo di stupire
quando dice: “È quattro giorni che ti amo
ti prego, non andare via, non lasciarmi ferito”
E non hai capito ancora come mai
gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai
però stai bene dove stai

E basta così. Perché non importa sapere se l’amore sia finito o no, se la storia sia reale o meno. Stavolta non c’è proprio niente da capire. Il lirismo visionario del testo, denso di riferimenti letterari (“La luna e i falò” di Pavese, il Montale dei “cocci aguzzi di bottiglia”), è calato in una cornice musicale sobria ed elegante, con le sue trame articolate e inusuali: il suono cristallino di una chitarra acustica, il nitore trasognato del fingerpicking, con quelle decine d’accordi che diventeranno la bestia nera dei chitarristi alle prime armi, il tono sommesso del cantato, una melodia che s’insinua tra gli arpeggi, tenera e saltellante.

Beautiful losers

Corsi e ricorsi cantautorali. L’epopea dei perdenti, degli outsider, dei reietti della società è un topos inveterato del songwriting. Da Brassens alla beat generation, da Dylan a De André e Guccini, torme di beautiful loser sono emerse dalla quinte conquistando il proscenio. Canzoni politiche, in gran parte, di denuncia. Oppure solo celebrazioni di esistenze al margine, del “wrong side of the road” di waitsiana memoria. In De Gregori, però, è lo stile a cambiare. Tutto, ancora una volta, si gioca sul filo dell’evocazione e della metafora. Come in “Pablo”, “il collega spagnolo” immigrato in Svizzera e caduto sul lavoro, forse perché il “padrone” si è infischiato di qualche norma di sicurezza. “È un Malavoglia, Pablo, non ha coscienza sociale, non ha coscienza politica – spiegherà De Gregori - È una vittima dell’ingiustizia del mondo, non è vittima di una controparte politica”.
Per anni confusa con un omaggio a Neruda o persino a Picasso, “Pablo” è invece solo quello che racconta: due note di cronaca, una storia minimale di amicizia, immigrazione e morte sul lavoro. Il ritornello, ritoccato da Lucio Dalla (co-autore del brano) ed enfatizzato dall’organo hammond, giunge liberatorio, in crescendo, con quel suo portentoso ossimoro: “Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo”. Grido di verità, di denuncia, cui fa da contraltare la surrealtà di quegli applausi finti, posticci, a simboleggiare la reazione di un’immaginaria assemblea che riceve la notizia.
Non è un perdente, ma ci assomiglia un po’ “Il Signor Hood”, con le sue “due pistole caricate a salve e un canestro pieno di parole”. Una nobile figura donchisciottesca, che sbatte contro il senso comune e l’ipocrisia della società (“regalò le sue parole ai sordi”). Al pari di “Pablo”, animerà infinite discussioni e i critici si accapiglieranno per stabilire di chi si tratti, trascurando, ad esempio, il notevole assolo di chitarra acustica e le armonie western delle sue musiche. Per la cronaca, la versione più accreditata è quella che lo identifica con Marco Pannella, all’epoca impegnato nelle sue titaniche battaglie referendarie.

Storie di ieri (e di sempre)

L’incubo dei regimi totalitari, di nuove croci uncinate e camicie nere, s’insinua anche in un disco di ritratti ed enigmi sentimentali come “Rimmel”. Ritagliandosi uno spicchio agro: “Le storie di ieri”. Inserito inizialmente nel disco della “Pecora”, il brano fu bloccato dalla Rca e riproposto solo un anno dopo, quando evidentemente – come ironizzerà De Gregori – “l’antifascismo era diventato più accettabile anche per i mass media”. Finirà nello stesso anno anche su “Volume VIII” di De André, il disco della collaborazione tra i due cantautori.
Il testo, amaramente ironico, smaschera i fascismi di ieri, ma soprattutto quelli di oggi, in doppiopetto:

E anche adesso è rimasta una scritta nera
sopra il muro davanti casa mia
dice che il movimento vincerà
i nuovi capi hanno facce serene
e cravatte intonate alla camicia

Nella versione originaria, al posto di “nuovi capi”, si faceva nome e cognome: Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale. De André sceglierà una via di mezzo: “Il gran capo”. L’espediente dell’alternarsi tra il padre e il figlio è funzionale al cambio di scena, alla proiezione del passato nel futuro e viceversa.

Mio padre ha una storia comune
condivisa dalla sua generazione
la mascella nel cortile parlava
troppi morti lo hanno smentito
tutta gente che aveva capito

C’è chi ha letto in questo verso il debito di De Gregori alla lezione storica di Renzo De Felice (suo maestro all’università), alla tesi del fascismo come “storia comune”, cui la gran parte della borghesia italiana aderì con entusiasmo (nella versione originaria e in quella di De André si parla proprio di “sogno comune”). Ma c’è un contrappunto nella rappresentazione della vicenda: non è Mussolini a parlare al cortile, bensì “la mascella”, il tratto più banalmente pittoresco del duce; inoltre, si abbassa il valore delle folle oceaniche che riempivano le piazze, ridotte a un “cortile”. Un contrappunto che si tinge di sarcasmo, ricordando il tributo di sangue pagato a quella allucinazione collettiva (“troppi morti lo hanno smentito, tutte gente che aveva capito”) e chiosando con illuminante metafora scacchistica: “A giocare col nero perdi sempre”. E se è vero che “Mussolini ha scritto anche poesie”, allora i poeti devono essere “brutte creature”, al punto che “ogni volta che parlano è una truffa”. E chissà se De Gregori si riferisce davvero a costoro, con cui avrà sempre un rapporto travagliato, o ai nuovi apologeti cortesi del regime, quelli che hanno preso atto che “i cavalli a Salò sono morti di noia” e che ora si mostrano con la faccia più presentabile.
Ma il bambino è l’elemento di rottura. Entra in contatto con un’altra dimensione (“tira sassi nel cielo e nel mare, ogni volta che colpisce una stella, chiude gli occhi e comincia a sognare”) e quando passa davanti a una scritta sul muro e “si guarda le mani”. Mani che lotteranno contro quell’oppressione. È il passaggio più positivo del testo, la speranza di una rinascita politica e culturale. L’ultimo verso sembra invece indicativo di certe dialettiche “politiche” vissute in famiglia:

Ma mio padre è un ragazzo tranquillo
la mattina legge molti giornali
è convinto di avere delle idee
e suo figlio è una nave pirata

Il figlio comunista è una nave pirata nell’arcipelago moderato di casa De Gregori? Forse, ripensando a quel che Francesco raccontava delle discussioni politiche con il padre. Ma sono false tutte le altre ricostruzioni sul carattere autobiografico della canzone. Al produttore Lilli Greco, invece, non piacque la coda finale di sassofono di Mario Schiano, ma si può annoverare tutto sommato tra i cardini musicali del brano, assieme al bel solo di contrabbasso introduttivo di Roberto Della Grotta.

Amici al Piano bar

Il 1975 è l’anno del grande freddo tra De Gregori e il suo ex-fratello di Folkstudio Antonello Venditti. E gli esegeti più maligni ne leggono le tracce nei versi di “Piano bar”, l’avvolgente ballata dalle tonalità à-la Elton John, in cui è ritratto un musicista/mercenario, che “vende a tutti tutto quel che fa”. Una parodia tagliente, mascherata dalle dolcezze melodiche e dal tocco morbido del piano:

È un pianista di piano bar
vende a tutti tutto quel che fa
non sperare di farlo piangere
perché piangere non sa
Nella punta delle dita poco jazz
poche ombre nella vita

Ma non è Venditti, il pianista di piano bar. Anche se De Gregori, all’epoca, ci si divertì un po’: “Quando ho fatto sentire il disco, che doveva ancora uscire, ad Antonello, mi disse che faceva schifo, tranne ‘Piano bar’. Allora gli ho detto che era dedicata a lui”. Il vero protagonista della canzone, invece, è un anonimo musicante da albergo, incrociato nella hall dell’hotel Hilton”, come rivelerà lo stesso autore.
Sulla strada di “Rimmel” si possono incontrare anche i “Quattro cani” più bizzarri del cantautorato tricolore. C’è chi li identificherà nello stesso de Gregori (il cane da guerra che “nella bocca ossi non ha e nemmeno violenza”), nell’amico-rivale Venditti (il bastardo “che conosce la fame e la tranquillità”), nella divina Patty Pravo (la cagna che “quasi sempre si nega, qualche volta si dà”) e nel produttore Greco (il padrone che “non sa dove andare, comunque ci va”). Ipotesi smentita ma mai definitivamente. Chi c’è di sicuro, invece, è Lucio Dalla, la cui voce spunta nei cori.
Quasi uno scherzo d’autore, “Quattro cani”, così come quella “Piccola mela” dolce e un po’ acerba, nella sua confezione spoglia da stornello, intonato in punta di voce.

Rimmel 2025

Con “Rimmel”, dunque, De Gregori riesce nell’impresa di coniugare impegno politico e sentimenti, senza snaturare il suo linguaggio, anzi, arricchendolo di tinte inedite e figure letterarie di straordinaria vitalità. Ma non è mai un lirismo intellettualistico fine a se stesso. De Gregori immerge le sue canzoni nel sostrato sociale e politico. Riproduce sentimenti e situazioni in cui ognuno si può rispecchiare. Per questo emoziona. Semmai, la difficoltà va ricercata in un utilizzo “sonico” dei versi che intreccia parola ed espressione musicale. Anche perché la melodia, per quanto esile e nervosa, resta di primaria importanza, il testo non la prevarica mai più del dovuto.
“Rimmel” fissa quindi l’archetipo di uno stile che resterà un modello per generazioni di cantautori. Un disco che, a 50 anni di distanza, mantiene intatta tutta la freschezza che contribuì al suo successo - mezzo milione di copie nel solo anno di pubblicazione, album più venduto in Italia nel 1975 dopo una leggenda come “Profondo rosso” dei Goblin.
Invecchiato benissimo, a differenza (delle critiche) dei suoi detrattori.

Fra le pagine chiare e le pagine scureCon estratti da “Fra le pagine chiare e le pagine scure” (Arcana, 2011)
Il canzoniere di De Gregori è un compendio di sentimenti sospesi, evocati con tocco visionario, cinematografico. Un percorso che, lungo le curve della memoria, attraversa le fasi più oscure e controverse della storia italiana. Ma nei suoi versi si è compiuta anche una rivoluzione lessicale decisiva per la canzone italiana. Il libro è un viaggio nel songbook degregoriano che si snoda attorno ai suoi principali nuclei tematici, in bilico tra personale e sociale, realtà e fantasia, soffermandosi anche su alcune tappe cruciali: l'epopea del Folkstudio, il processo del Palalido, il sodalizio con Lucio Dalla, le altre svariate collaborazioni, fino al recente suggello del nume Dylan.

12/01/2025