Elliott Smith - Waltz #2 (XO)
(inclusa nell'album "XO", DreamWorks, 1998)
Ho incontrato persone che mi piacevano al college, ma nessuna canzone proviene da lì. Esse derivano dall'essermi dovuto trasferire dalla famiglia di mia madre più di qualsiasi altra cosa.
(Elliott Smith)
Cosa influisce maggiormente sul modo in cui un uomo si relaziona con le donne nell'età adulta? Non serve scomodare Freud per capire che stiamo alludendo al più antico degli archetipi, ovvero il rapporto con la propria madre. Per comprendere una delle più emblematiche canzoni di Elliott Smith bisogna partire proprio da qui, dai libri di psicologia: è infatti indubbio che alcuni elementi della biografia del cantautore marchino questa canzone su più livelli, anche se la qualità maggiore di “Waltz #2” sembra quella di essere una sorta di (auto)terapia trasposta in musica. In effetti Smith non solo ci racconta le sue storie d’infanzia, ma nel contempo analizza metaforicamente il modo in cui i sentimenti per la figura materna vengono poi proiettati verso le donne in generale, aprendo il testo ad altri – innumerevoli - significati. Costretto da bambino a convivere con una madre anaffettiva, il cantante cade nello stesso tranello nella sua vita amorosa, scontrandosi con il muro dei propri sentimenti.
Smith amava Bunny, anche se non gli è stato dato modo di conoscerla come è permesso a un bimbo normale che vive con la propria madre. Eppure, malgrado le contrastanti emozioni derivanti da questo distacco, il cantante non può fare a meno di provare un naturale impulso d'amore per lei. La canzone comincia proprio da qui, in un microcosmo familiare dove non è ancora entrato il caos: siamo in un karaoke bar di Cedar Hill (Texas) e lo Smith-bambino sta osservando estasiato la madre mentre canta “Cathy’s Clown” degli Everly Brothers. Nella sua testa, Elliott sembra quasi dimenticare quella squallida location e posizionarla su un palcoscenico gremito di luci e spettatori: il "microfono" e la “mezza sigaretta" sono tutte immagini che fanno pensare a una performer degli anni Trenta, a una Marlene Dietrich perfetta nel suo essere al contempo vulnerabile e radiosa. Poi, però, qualcosa spezza questa solenne visione: l’incontro con un uomo trasforma questa donna forte e affascinante in una persona "che non mostra alcuna emozione" e che fissa lo spazio con gli occhi di "una bambola di porcellana morta". È interessante notare come Smith non scelga a caso il pezzo cantato dalla madre: nella sua perfetta struttura pop, ”Cathy's Clown” cela infatti anche una storia di evidenti abusi fisici e/o psicologici (“Don’t you think it’s kind of sad/ that you’re treating me so bad/ or don’t you even care?”).
La narrazione si sposta successivamente verso le conseguenze di questo incontro. Quasi fosse una sequenza cinematografica, la voce del cantautore illustra un brusco cambio di inquadratura: "Quello è l'uomo con cui è sposata ora/ questa è la ragazza che porta in giro per la città". È qui che avviene il climax, la vera svolta narrativa, il momento in cui Smith capisce di avere perso la madre, divenuta ormai solo un essere inanimato nelle mani di un uomo prepotente. Ma il figlio non la biasima per le sue scelte, nonostante tutto: questo è chiaro nel ritornello, dove con commovente innocenza le sussurra che anche se “non la conoscerà mai” per ciò che è diventata, “le vorrà per sempre bene”. Una conclusione alla quale il cantautore non giunge senza dolore e cicatrici, poiché anche lui diverrà bersaglio degli abusi del patrigno.
Quel che accade dopo è pertanto una rappresentazione sublimata dei soprusi che Elliott ha dovuto subire durante l’adolescenza: quando entra in scena un secondo narratore, capiamo subito che si tratta di Charlie, le cui parole "you’re no good" (frase breve ma sprezzante, traducibile come “non vai bene” o “sei un buono a nulla”, ndr) vengono ripetute per tre volte - una formula che, in tal senso, sembra alludere al brano omonimo di Linda Ronstadt. Non è un caso: ogni dettaglio pare infatti avere una sua funzione narrativa, come parte di un set ingiallito nelle stanze dei ricordi. Siamo dunque portati a immaginare che anche Charlie stia cantando al karaoke, facendosi beffa delle insicurezze del figlio acquisito. Il cantautore si esilia perciò "nel luogo in cui non fa errori/ nel luogo in cui ha quello che serve". Se stia alludendo alla musica o all’eroina non ci è dato saperlo, ma si tratta certamente di un posto in cui “la sua memoria è distante", dove i maltrattamenti subiti rimangono nascosti nel subconscio.
A dispetto del docile titolo, "Waltz #2" è una canzone durissima da digerire, che trova nel chiasmo tra il doloroso testo e la mite batteria in 3/4 una contrapposizione davvero micidiale. La confessione di Smith è spietata: si rivela infatti un uomo stanco di lottare contro i suoi demoni, lo dice apertamente più volte nel corso del brano, facendoci presagire la sua imminente fine. L'unico momento nel quale si intravede la luce è nel bridge, in cui cerca invano di trovare la forza per liberarsi dalle passate ingiustizie ("Oggi sono qui e spero di rimanerci ancora"). Che la canzone sia dedicata alla madre finora lo abbiamo solo supposto, ma quando alla fine del pezzo sussurra quell’ingenuo “XO mom” tutto appare molto eloquente. Nella prima versione del testo e in alcuni live, Smith azzardava addirittura uno straziante “I love you mom” come a voler suggellare un addio: d'altronde “baci e abbracci” o “ti voglio bene” sono tutte cose che si scrivono in fondo a una lettera.
A leggere le sue vicende biografiche, risulta difficile non immedesimarsi nel dolore del cantautore. Non deve essere stato facile per lui partire e andare a vivere con suo padre nell’Oregon, portandosi dietro il senso di colpa per avere abbandonato Bunny con un uomo violento: Elliott può solo prendere atto di come volere bene a una persona significhi accettare amaramente anche le sue scelte sbagliate. Questa preoccupazione, assieme agli abusi subiti, accompagnerà Smith per troppi anni. Un pensiero su cui il frontman dei Dinosaur Jr., il neo-papà J Mascis, ha voluto focalizzarsi nella compilation “Say Yes!” (2016), dove riscrive il testo della ballata desolante in qualcosa di più criptico, trasformando il verso “There you go/ expected to know/ on and on and on/ I'm tired” nel ritornello del brano e variando così anche il punto di vista del narratore.
In ambito puramente musicale, "Waltz #2" riflette il cambiamento stilistico di Smith all'epoca della pubblicazione dell'album “XO”: in quel momento è reduce dalla consacrazione globale grazie alla nomina all’Oscar di "Miss Misery", brano che lo cristallizza nel ruolo del folksinger di successo. Ma Smith non è soddisfatto; vuole essere più di un semplice cantante per le masse, ingessato in uno smoking bianco che poco gli si addice.
Tra le tante cupe ossessioni dalle quali è stato tormentato nella sua breve vita, patisce in modo entusiastico la fissazione per i Big Star. Nel corso degli anni Settanta, con soli tre Lp all'attivo, la sfortunata band di Alex Chilton e Chris Bell aveva compiuto una parabola unica nella storia del pop, costellata di composizioni raffinatissime e melodie cristalline. Con l’unica colpa di un tempismo sbagliato, i Big Star resteranno per decenni una band di culto, amata alla follia dagli altri musicisti ma sconosciuta al largo pubblico. Quando Elliott Smith, lasciati i rumorosi Heatmiser, si mette la chitarra acustica a tracolla e inizia a cesellare la sua collezione di meravigliosi bozzetti, riprende la lezione di Beatles, Beach Boys, Byrds, Kinks e, appunto, dei Big Star. Nonostante siano i meno famosi del lotto o forse proprio in virtù della loro malasorte, i Big Star rappresentano per le nuove generazioni l’esempio più fulgido di perfezione formale e intensità emotiva.
Elliott Smith ama in maniera particolare “Thirteen”, pezzo che incarna in maniera proverbiale l’innocenza adolescenziale e, allo stesso tempo, innesca la malinconia per la giovinezza in chi ha superato da tempo la fase delle illusioni e delle speranze. E proprio di illusioni e speranze è intessuta “Thirteen”: con i colori dell’acquarello, Chilton canta il desiderio di stare con la propria ragazza e la voglia di conquistare un posto nel mondo. Più di ogni altro brano del suo strepitoso canzoniere, è in “Waltz #2” che Smith riesce a sfiorare - e forse a eguagliare - il suo modello di riferimento; tuttavia, al contrario di “Thirteen”, “Waltz #2” è una canzone di disamore, che non lascia spazio per speranze né illusioni. Tra i due brani passa poco più di un quarto di secolo ma nel frattempo è cambiato il mondo: l’utopia collettiva si è infranta e l’ottimismo su scala personale si è ridotto a un lumicino. Se in “Thirteen” il possibile fallimento è solo uno spettro che aleggia intorno all’adolescenziale slancio vitale, in “Waltz #2” la rassegnazione è ormai un dato di fatto inconfutabile, che trova nella morte di Smith l'amaro sacrificio del profeta.
First the mic then a half cigarette
Singing “cathy’s clown”
That’s the man that she’s married to now
That’s the girl that he takes around town
She appears composed, so she is, I suppose
Who can really tell?
She shows no emotion at all
Stares into space like a dead china doll
I’m never gonna know you now,
But I’m gonna love you anyhow
Now she’s done and they’re calling someone
Such a familiar name
I’m so glad that my memories remote
‘cos I’m doing just fine hour to hour, note to note
Here it is the revenge to the tune
“you’re no good, you’re no good, you’re no good”
Can’t you tell that it’s well understood
I’m never gonna know you now,
But I’m gonna love you anyhow
I’m here today and expected to stay on and on and on
I’m tired, I’m tired
Looking out on the substitute scene
Still going strong
XO mom
It’s ok, it’s alright, nothing’s wrong
Tell mr. Man with impossible plans to just leave me alone
In the place where I make no mistakes
In the place where I have what it takes
I’m never gonna know you now,
But I’m gonna love you anyhow
Un ringraziamento speciale a Carlo Bordone
Testo e traduzione |