Apse

Climb Up

2009 (Atp)
avant-rock, alt-rock, gothic
7.5

Finalmente, è la volta del secondo albo lungo degli Apse. E’ il frutto di un percorso che porta da “Spirit” a una nuova concezione, più lunga e meditata, di training strumentale. Di fatto, i due fondatori Michael Gundlach e Bobby Toher (oltre al bassista John Mordecal), hanno introdotto il multi-strumentista Jed Amour e il nuovo batterista Brandon Collins, a un’apertura stilistica totale, in quel di Cape Cod (Massachusetts), a inglobare natura, ciclo stagionale, esperienze esistenziali, concerti, socialità. Il tutto si è riflesso nel processo compositivo, che ha fruttato alcuni demo preparatori e infine l’opera finita, una vera e propria conseguenza diretta, per così dire process-generated, di questi meditati avvicendamenti.

La proposta di “Climb Up” ha ora un che di sontuoso e di tragico. Ormai quella degli Apse è tendenza al gotico melodico che è degna dei Pil e degli Amon Duul. La voce di Toher, in perenne, imperiosa salmodia filtrata, è uno dei centri nevralgici delle composizioni, di modo che le robuste sincopi di “Rook” e “The Whip”, che si alternano ieraticamente a motivi depressi, possano trovare un legante che vada oltre la schizofrenia. E “3.1”, per contro, spinge al massimo l’orecchiabilità ballabile, accentuando tanto la distorsione quanto la coralità, quanto esasperando l’esplosiva cadenza post-punk.

Contrita o meno, la musica degli Apse è voluttuosamente malleabile, cullata da intromissioni nostalgiche, o etniche, o manieristiche, come nei Portishead di “All Mine”, praticamente una hit danzereccia suonata a mezza voce e mezza velocità, o il dub-flamenco lunare di “Blown Doors”, talmente percussivo da coniare una sorta di black music alla Tv On The Radio per l’era della drone music.

Tastiere e apparati elettronici sono comunque i più devastanti propulsori dell’isteria, e i soli in grado di deragliare le canzoni. Se “Lie” si rifugia in una tipica progressione sonnambula da “adagio” di sonata, e “In Gold” è una ballad aliena con accordi jazzy e twang distorti, “The Age” fa leva su di una jungle Radiohead-iana dilatata per inondarla di suoni casuali e fratturarla in interruzioni, ripartenze e digressioni ambient sinfoniche.
Il disco è altrettanto musicale anche nel sottile e subliminale strumentale di “Tropica”, un accatastamento raga di pure volte soniche, che nell’ultimo anfratto mostrano timidamente un motivetto folkish (a rendere il tutto ancor più allucinato). Un altro capolavoro è il lento requiem di “Climb Up”, su brulicare ritmico e strappi di organo, per sconfinare in un’apertura di coro angelico.

Solo Nick Cave, Nico e pochi altri hanno contribuito così tanto a rinverdire e reinventare la piece drammaturgica. La complicata storia delle lavorazioni ne è già un prologo che sfronda le nequizie: hanno impiegato più di tre anni, ancor prima del predecessore “Spirit”, che già era un capolavoro di ristrutturazione d’anticaglie post-rock; e poi saggiamente districato in una saga che ricorda vagamente quella dei Broken Social Scene. Cullato da sostrati di vuoto panico (piani lontani, percussioni etniche, ronzii), risultato primo di una lunga serie di jam session, imperniato su di uno spirito grandioso, visionario, arricchito in ogni quando di elementi che sviano sistematicamente dai generi, danza dolente tra brani insistenti e meticolosi manipoli di suoni squarcianti. Numerosi passaggi memorabili. Curato, editato e post-prodotto dagli stessi Toher e Gundlach, confezionato con cura mirabile.

01/11/2009

Tracklist

  1. Blown Doors
  2. 3.1
  3. All Mine
  4. Rook
  5. In Gold
  6. The Age
  7. Tropica
  8. The Whip
  9. Lie
  10. The Return
  11. Climb Up
  12. Closure

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