Sheffield, 1981. Un tizio dai tratti effeminati, con l’appariscente ciuffone bruno e due fanciulle minorenni al seguito, si presenta al pubblico con un disco dal titolo "Dare!". Tradotto, osa. Gli è che il summenzionato ciuffone è stato da poco mollato dagli artefici della sua risicata popolarità, ma che la Virgin ha egualmente deciso di scommettere un ultimo penny sul suo cavallo. Il suo osare, dunque, è per lo più dettato dal rischio ultima spiaggia: fallendo, non resterà che prendere ombrellone e secchiello e consegnarsi all’oblio.
Il ciuffo è quello di Phil Oakey, e "Dare!" sbancherà le classifiche del pianeta. Altri tempi. Tempi in cui fare tombola voleva dire assicurarsi vendite millionarie, appunto, mentre fallire significava non ottenere più credito neppure dalla più scalcinata delle label. Oggi è tutto diverso: se è vero che le stelle non sono più così luccianti, è altrettanto pacifico che le stalle non emanano più un olezzo tanto forte.
Accade allora che John MacLean, produttore e musicista newyorkese con un passato da chitarrista nei Six Finger Satellite, abbia tutta la tranqullità necessaria per dedicarsi alla professione di confezionatore di potenziali hit, e di sfornarne di quando in quando una raccolta senza accampare l’illusione di mettere il mondo ai suoi piedi, né però col rischio di bere dall’amaro calice della sconfitta. Questo perché John, in arte The Juan MacLean, il suo lavoro lo sa fa fare più che bene. E per capirlo basta scorrerne le produzioni da piccolo culto della techno-house: un palmares ornato da un pugno di brani vincenti e corredato da un album, "Less Than Human" (Dfa, 2005), magari troppo ossequioso verso il mondo dei club ma non per questo privo di buone intuizioni. Meno che umano, forse perché nell’immaginario artistico di John non c’erano altro che figure indistinte da far muovere meccanicamente al ritmo di una drum machine. Ma adesso qualcosa è cambiato, come quando alzi lo sguardo dall’ego e cominci a scrutare i lineamenti di chi ti circonda, cercando di indovinarne le storie. La nuova prospettiva da cui tutto sembra mutato.
Così quando attacca "The Simple Life" dal fondo del locale gli appare una sagoma in controluce molto simile a Giorgio Moroder: qualche dubbio sull’identità resta, ma nessuno sul fatto che una persona in carne ed ossa, fra un ammiccamento a "Chase" e una strizzatina a "From Here To Eternity", gli si sta parando incontro. Servono cinque minuti abbondanti di puro piacere per capire il gioco di prestigio. Probabilmente distratto dalle suadenze femminili che a un certo punto si frappongono, John scopre, solo quando la sagoma gli è appresso, che il sosia non è Moroder bensì Oakey, il quale gli intona beffardo all’orecchio qualcosa di molto simile a "The Things That Dreams Are Made Of". Osserviamo divertiti la scena: un’occhiata all’orologio per scoprire che, fra una cosa e l’altra, sono passati gli otto minuti più ludicamente veloci della nostra esistenza musicale recente.
Siamo solo all’aperitivo, ma urge un’avvertenza: se non avete superato quel trauma da anni 90, per cui la dance era tutta un rimasticare arie più o meno familiari, spegnete il lettore e andate farvi un giro. Se invece avete il sentore che la primavera sia anche qui, allora proseguite nel sublime diletto sollazzandovi col dubbio che vi farà chiedere se l’imitazione sia un’arte, o se l’arte non sia piuttosto imitazione. Domanda oziosa, vista la posta in gioco, e perciò converrà fregarsene per gustarsi in santa pace l’irresistibile sapore del frullatone che ci attende.
In "The Future Will Come" balza all’orecchio un’inattesa confidenza con la materia radiofonica, nonché la deliberata intenzione di farci ballare usando più il pop della cassa, tributando tutte quelle stagioni musicali che, tempo per tempo, hanno reso questa miscela esplosiva. Siano esse più recenti, come nella sfolgorante electro di "One Day" (il brano che, pur citando "Don’t You Want Me", i Fischerspooner cercano di comporre dai tempi di "Emerge"), oppure a ritroso, nel sagace omaggio alla Yellow Magic Orchestra di "A New Bot" o, più indietro ancora, nella space disco di "Tonight", che piazza una tastiera da far impallidire Cerrone, con Nancy Whang nell’improbabile ma efficace veste di novella Dee D. Jackson.
Nancy Whang, la minuta tastierista orientale degli LCD Soundsystem, è la vera finalizzatrice dell’album, colei che ci mette il cuore, ma soprattutto un’inappuntabile voce in latex che, trasfigurata al punto giusto, dona una calibrata dose di umanissima artificiosità. E poi c’é la sfacciataggine di John, che per raggiungere lo scopo non esita a rispolverare le frasette appiccicose dell’italo-disco per decorare l’iridescente duetto di "The Station", né ad appropriarsi dei groove della vecchia scuola riportata in auge di recente da Hercules And Love Affair (nell’epica title track, e nella sinuosa "Accusations").
Che dire poi di "No Time", in cui sembra che i Daft Punk rivoltino come un calzino "Being Boiled" degli Human League (la linea vocale è quella, non si scappa), facendoci assaporare ancora una volta la perversione di un riciclaggio così paraculo da apparire inedito?
Giusto la pausa per un drink in giardino (la divagazione pseudo-ambient di "Human Disaster", non malvagia ma perfettibile) e poi via coi dodici minuti da paura di "Happy House". Il cerchio che si chiude, il tributo house (anche, persino) agli anni 90, che con la sua penetrante reiterazione è già un classico, avendo spopolato nei club di mezzo mondo come singolo, lo scorso anno.
"The Future Will Come" si segnala come uno dei bignamini dance meglio concepiti degli ultimi anni: disco-music inzuppata di synth-pop e profumata di electro, che va a immergersi nella vasca dell’house in un florilegio di promiscuità. Raggiungendoci con l’indispensabile freschezza che la fa suonare come qui ed ora: il mai disvelato mistero del marchio Dfa.
01/04/2009