Già membro dei Lower Dens nonché frontman del progetto Tulsa, Carter Tanton con il suo secondo album “Freeclouds” (2011) non era riuscito a mettere a fuoco alcune discordanze stilistiche. La commistione di vecchia musica country e indie-pop suonava ibrida e poco convincente, nonostante la buona caratura del songwriting.
Cinque anni non sono passati invano e Carter Tanton trova finalmente la sua identità. La maturità che sprigiona “Jettison The Valley” è frutto di una maggior consapevolezza delle sue doti vocali e di quelle d’autore. Inoltre, un interessante nugolo di ospiti fa lievitare deliziosamente il tono crepuscolare e intimo dell’album.
Il suono dei synth è ora meno invadente, il contesto lo-fi si è impossessato delle pulsioni pop con elegante romanticismo, le incongruenze sonore sono notevolmente ridotte e il filo comune dei testi (le difficoltà di una rottura sentimentale) creano un piacevole trait d'union lirico.
L’ombra di Neil Young è sempre dietro le quinte del sound, al punto che si materializzano deliziose costole sonore di “Harvest” (“Diamonds In The Mine”) o di “After The Gold Rush” (“The Dressmakers’ Girl”) con suggestive sequenze di steel guitar (“Fresh Faced Claire”), armonica e acustica a 12 corde. Sharon Van Etten illumina il percorso delle due ballate più accattivanti, tra intriganti ibridazioni pop-folk (“29 Palms”) ed echi di Phil Spector (“Through The Garden Gates”).
“Jettison The Valley” risente altresì del lungo soggiorno di Carter Tanton in Inghilterra: il tocco brillante delle chitarre spesso evoca gli Smiths, sfiorando il plagio (per eccesso d’amore) in “Poison In The Dark”.
L’autore riesce a sorprendere per quel piacevole azzardo che in “The Long Goodbye” mette insieme il country di Nashville e il pop californiano degli Eagles (siamo dalle parti del glitch), mentre la title track eleva l’ibridazione tra passato e presente in un pregevole e atipico uptempo che sposa soluzioni weird-folk, affidando alla voce di Marissa Nadler la catarsi emotiva e armonica.
Qualche leggera sbavatura non inficia il risultato finale, anche se appare evidente che gli amanti del sound americano troveranno motivi di disappunto nella contaminazione tutta english di molti arrangiamenti (“3:30”).
“Jettison The Valley” non è solo l’album più consistente e solido che il musicista americano abbia mai realizzato, ma anche un prezioso antidoto all’invasione di songwriter voce e chitarra pronti a insidiare la stagione concertistica e discografica prossima futura, io vi ho avvisato.
23/09/2016