Maja S.K. Ratkje

Sult

2019 (Rune Grammofon)
avant-folk, post-minimalismo

A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni...
Ero coricato, sveglio, nella mia soffitta: sotto di me una pendola sonava le sei. [...] Appena aperti gli occhi mi ero messo a riflettere: ci sarà oggi qualche cosa che mi possa dar gioia?
(Knut Hamsun, “Fame”)

La crudezza di certi racconti non si edulcora nel tempo. La società scandinava moderna non poteva più essere la stessa dopo le pièce teatrali di Ibsen e Strindberg e, più avanti, le angosce morali del cinema di Bergman. Così anche il romanzo semi-autobiografico di Knut Hamsun, testimonianza sofferta e allucinata di una vita in estrema povertà nella Oslo di fine Ottocento: uno spartiacque letterario che nel tempo ha ispirato due adattamenti cinematografici e un recente balletto del regista Jo Strømgren per il Norwegian National Ballet.

È nell’ambito di quest’ultima produzione che entra in gioco la già ben nota figura della compositrice e performer sperimentale Maja S.K. Ratkje: l’artista di Trondheim si è affermata dai primi anni 2000 sotto l’egida della Rune Grammofon (e non solo), soprattutto per gli arditi estremismi vocali figli di Diamanda Galás, dall’esordio “Voice” al recital con orchestra di “And Sing…”.
Dopo l’ambizioso oratorio “Crepuscular Hour”, eseguito assieme a comprimari di prestigio della scena elettroacustica e avantgarde norvegese, il progetto per la messa in scena di “Sult” (“Fame”) appare come un esercizio in scala ridotta, ma la cui inventiva e il profondo lirismo non sono da meno rispetto alla produzione antecedente.

Con l’assistenza dei tecnici del teatro dell’opera nazionale, Ratkje ha modificato le componenti e i meccanismi di un vecchio organo a pompa, applicandovi tubi di metallo e di PVC, corde di chitarra e percussioni, creando uno strumento ibrido degno del più bizzarro immaginario steampunk. La fase di composizione per l’artista è dunque coincisa con un graduale apprendimento, volto a sviluppare la capacità di suonare e cantare mentre i piedi azionano i mantici che forniscono aria alle canne.
Ratkje ha eseguito le sue musiche dal vivo per ciascuna replica del balletto, esponendosi ogni volta alle imperfezioni tonali dell’anomalo organetto: ciò nonostante l’esito è quantomai rispondente alla descrizione che lo sguardo miserevole di Hamsun offre del capoluogo scandinavo alla vigilia del progresso industriale.

“Questa città meravigliosa”, titola la commovente introduzione strumentale, memore dei sommessi temi di Mihály Víg per il maestro del cinema ungherese Béla Tarr, laddove nel secondo brano il canto melodico di Maja è introdotto da acute vibrazioni di lamiere sfiorate da un archetto.
“Mentre, semisdraiato, facevo scorrere lo sguardo lungo il petto fino alle gambe osservai i piccoli scatti del mio piede a ogni pulsazione”: questo il passaggio cui si riferisce il terzo brano, attraversato da progressioni minimaliste e sottili clangori da vecchia orologeria; qui Ratkje inizia a dar voce al delirio del protagonista con vocalizzi e sillabazioni asemantiche alla Meredith Monk, nume tutelare che subito ritorna nell’invocazione mantrica di “Sayago”.

“Nel tormento della fame avevo raccolto per la strada un pezzetto di legno e mi ero messo a masticarlo”: come la prosa di Hamsun coniuga rassegnazione e meraviglia, osservando il presente come all’ombra di un passato luminoso, anche il canto di Maja oscilla continuamente tra alienazione e malinconia, senso claustrofobico e modeste elevazioni liriche – “Se era bella! Era magnifica, stupenda, soave. Occhi come la seta, braccia come l'ambra!” (“Øine Som Råsilke, Armer Av Rav”).
In terz’ultima battuta l’incedere sulla tastiera si fa arcigno e zoppicante, infantili e autoriferite le poche linee vocali, sintomi di una follia ormai incipiente che pure non scalfisce la dignità dello sconfitto: “La sensazione di essere un uomo di carattere, un faro bianco e luminoso in mezzo a una marea spregevole di relitti umani”.

Ma in questa riduzione per il formato album Ratkje lascia poco spazio al precipizio che conduce alla perdita del senno, accumulando qualche rumorismo e fraseggio sconnesso nel passaggio che precede l’accorata dedica finale a “Kristiania”, topònimo originario della capitale norvegese, condensata in un quadretto invernale di umile poesia.
Tutt’altro che opera minore, “Sult” è per Maja S.K. Ratkje la riprova di come si possano imboccare sentieri espressivi “tradizionali” a partire da una strumentazione inortodossa, scoprendone il potenziale senza guide all’uso né scorciatoie.

Estratti letterari da “Fame” di Knut Hamsun, Adelphi, 1974, traduzione di Ervino Pocar.

13/03/2019

Tracklist

  1. Introduksjon – Denne Forunderlige By
  2. Sjå, Åmioda – Og Ikke En Lyd Kom Mig Fra Strupen
  3. Den Sprættende Bevægelse Min Fot Gjør Hver Gang Pulsen Slår
  4. Sayago – En Sådan Glidende Lyd
  5. En Træflis Å Tygge På
  6. Øine Som Råsilke, Armer Av Rav
  7. Et Hvitt Fyrtårn Midt I Et Grumset Menneskehav Hvor Vrak Fløt Om
  8. Jeg Fornemmer Mine Sko Som En Sagte Susende Tone Imot Meg
  9. Kristiania

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