L'abbraccio dell'Italia ai Blur, dopo una “latitanza” durata quasi dieci anni, non poteva essere più caldo di così. Questione di clima, certo - i termometri milanesi sfiorano i quaranta gradi centigradi – ma soprattutto di emozioni, quelle che la musica del quartetto londinese non ha mai smesso di suscitare nei fan di tutte le età, in ogni parte del mondo.
A riaccogliere Albarn e soci è l'Ippodromo del Galoppo, bella location che proprio con i Blur termina un lungo calendario di concerti. Sono circa diecimila le persone che gremiscono il prato e le tribune milanesi già dal pomeriggio, sebbene l'attesa si rivelerà più lunga del previsto: il concerto inizierà soltanto alle 21.30, in netto ritardo rispetto alla tabella di marcia, forse per attendere che l'ultimo raggio di sole venga inghiottito dal buio per dare il via alle danze.
E che danze. Le casse sparano “Theme From Retro” e non c'è quasi il tempo di capacitarsi che i Blur sono sul palco che parte “Girls & Boys”, e l'Ippodromo diventa uno stadio che saltella all'unisono, in preda a una gioia liberatoria che contagia anche il palco. Damon Albarn, vestito di jeans, camicia floreale e giacchetta (!), non sta fermo un attimo e, in fin dei conti, è ancora l'eterno ventenne che ricordavamo. Anche Graham Coxon sembra decisamente in palla, mentre Alex James e Dave Rowntree, apparentemente più compassati, danno vita a una sezione ritmica di grande impatto.
La prima parte del concerto non dà respiro alla folla accaldata: “Popscene” è una bomba a orologeria, “There's No Other Way” scatena i cori del pubblico italiano in un crescendo che raggiunge l'apice nella successiva “Beetlebum”, uno degli inni più amati della formazione inglese, cantata a squarciagola dai diecimila dell'Ippodromo. Seguono due pezzi dall'album “13”, ovvero “Trimm Trabb” e “Caramel”, a spezzare il ritmo di un concerto partito in quinta, dopodiché è la volta di un altro grande classico, “Coffee & Tv”. E qui va in scena l'imprevisto più bello della serata. Il pubblico spinge verso il palco un fan travestito (con grande perizia, va detto) da cartone del latte, Albarn lo vede e, tramite ampi cenni, fa capire che lo vuole sul palco. Detto, fatto: il cartone umano zompetta sullo stage per tutto il brano, rifiutando persino la richiesta dello stesso frontman di cantare un ritornello del brano, ma ricevendo comunque l'accorato abbraccio di quest'ultimo. Insomma: se volete toccare il cielo con un dito, travestitevi da tetrapak. Oppure posizionatevi in prima fila, perché potreste trovarvi Albarn che vi salta addosso mentre canta “Country House”, come accadrà poco dopo – nel mentre ci sarà spazio per “Tender” e una splendida “To The End”.
Ogni canzone è accolta con boati da stadio, ma a scatenare il delirio collettivo è “Parklife”, la band e il pubblico letteralmente tarantolati. I Blur sono più in forma che mai, hanno voglia di spaccare il mondo come ai vecchi tempi e i fan percepiscono questo stato di grazia, riverberandolo in una platea sempre più ondeggiante.
La prima parte del concerto si chiude con altri due grandi classici di assoluto valore, ovvero “End Of A Century” e “This Is A Low”. Qualche minuto di pausa e l'encore è inaugurato dall'ultima arrivata in casa Blur, la ballata “Under The Westway”, decisamente bella anche in versione live.
Ancora una volta, il finale è un crescendo di emozioni: si parte con “For Tomorrow”, si prosegue con una “The Universal” da brividi e si conclude così come si era iniziato, a tutta velocità con “Song 2”.
Sono le ore 23, i Blur se ne vanno, si riaccendono i riflettori. La sensazione è che il concerto, cominciato in netto ritardo, sia stato ridimensionato nel minutaggio per concludersi comunque all'ora prestabilita. Tesi suffragata dal fatto che, prima del live, le scalette sul palco sono state incollate più volte. Verità o suggestioni dovute alla canicola? Non lo sappiamo. Ciò che resta, della serata milanese, è una band più viva che mai, ancora in grado di stupire e divertire.
Lunga vita ai Blur.