24/04/2014

Lee Ranaldo

Union Pool, New York


Desta una certa emozione poter assistere a un concerto di Lee Ranaldo nella “sua” New York, la città che lo ha visto imporsi sin dai tempi delle no-wave, prima come seguace di Glenn Branca (fece parte anche della sua singolare orchestra), poi come membro fondatore dei Sonic Youth. Per lui esibirsi qui deve avere un sapore un po’ speciale, e non mancherà di sottolinearlo in uno dei suoi interventi fra un brano e l’altro all’Union Pool, piccolo ma confortevole live club di Williamsburg, Brooklyn, cinque fermate di subway da Manhattan. Ranaldo ha sempre portato avanti un personale percorso solista (il suo primo album senza gli Youth risale al 1987: “From Here To Eternity”), ma recentemente, con la band madre in stand-by per le note vicende Gordon- Moore, un’ulteriore spinta propulsiva si è concretizzata in due riusciti album editi dalla Matador nel giro di pochi mesi: gli apprezzati “Between The Times And The Tides” e “Last Night On Earth”.

A scaldare l’ambiente ci pensa l’esperto chitarrista Chris Forsyth: un passato trascorso fra Phantom Limb, Peeesseye, un intricato labirinto di collaborazioni e svariati dischi in proprio licenziati dal 1998. Ma soprattutto un presente nel quale il musicista di Philadelphia si è reinventato come leader del gruppo che lo accompagna: la Solar Motel Band. Il suo stile si posiziona in un’ipotetica congiunzione astrale a cavallo fra la psichedelia free dei Grateful Dead e le asprezze da Cbgb dei Television. Le strutture musicali, pazientemente costruite attraverso arguti intarsi fra le due sei corde, cammin facendo divengono maestose, sfociando non di rado nella cacofonia. E’ questo il comune denominatore delle composizioni proposte, fra le quali la più rappresentativa è senz’altro “III”, uno dei quattro movimenti che compongono il nuovo album “Solar Motel”, una mini-suite elettrica al tempo stesso fragile ed epica, che parte lenta e sinuosa per aprirsi verso tempeste elettriche simili a quei deragliamenti sonici tanto cari a Nels Cline. Ascoltate dal vivo le canzoni di Forsyth risultano ancor più informi, un sound espanso denso di improvvisazioni, che libera le menti e conduce dritti verso il vero protagonista della serata.

Dopo circa un’ora tocca a Ranaldo e ai suoi Dust (quartetto che comprende anche l’altro “giovane sonico” Steve Shelley alla batteria) prendere possesso del palco. Si parte con l’archetto sulla sei corde che introduce “Key/Hole” per proseguire con il wha-wha e i campanelli che abbelliscono la trascinante “Lecce, Leaving”. Il chitarrista di Long Island snocciola tredici tracce accessibili, pur se infarcite di quei deragliamenti sonici che ci riportano al glorioso passato, e particolarmente espansa risulterà “The Rising Tide”. Passa in rassegna un’invidiabile collezione di Fender Jazzmaster, alcune delle quali meravigliosamente vissute, una girandola che (con rammarico di molti presenti) non prevede alcuna riproposizione dal catalogo Sonic Youth, bensì un omaggio ai Byrds nella rilettura di “Everybody’s Been Burned”. Viene eseguito quasi integralmente il recente “Last Night On Earth”, otto tracce su nove, mentre tre vengono ripescate dal precedente “Between The Times And The Tides”, fra le quali l’acclamata “Angles”. Spazio anche al momento più introspettivo, con i suoni che si fanno soffusi nella sequenza “Late Descent 2”/ “Stranded”.

Energico ed elegante al tempo stesso, forte di un suono sempre riconoscibilissimo, Ranaldo rivendica inconsapevolmente la propria centralità all’interno di ciò che resta di quella che fu la gloriosa scena post- punk newyorkese e non solo). La prima parte del set trova il proprio epilogo nelle note dell’immancabile “Xtina”, mentre i bis vengono inaugurati con l’iper-trascinante “Mannequin”, cover dei primissimi Wire (dall’esordio “Pink Flag”, 1977). Sarà poi “Blackt Out” a chiudere in bellezza i giochi.
A fine concerto Lee è al banchetto dei gadget e si intrattiene amabilmente con il pubblico: ci scappa una piacevole chiacchierata durante la quale inevitabilmente ci ritroviamo a ripercorrere le varie volte che con i Sonic Youth suonò a Roma, scoprendo che le due esibizioni tenute al Teatro Romano di Ostia Antica gli sono rimaste (e non poteva essere altrimenti) nel cuore. Mentre ci complimentiamo con Steve Shelley per l’ottimo “Pre Language” pubblicato con i Disappears un paio d’anni fa, scopriamo che si può ancora sperare in un nuovo disco della “gioventù sonica”. Lee non può certo garantircelo, ma il suo atteggiamento non è di chiusura, confermandoci che la band non è mai stata sciolta. Tanto per chiudere in maniera assolutamente piacevole una memorabile serata trascorsa nella Grande Mela.