20/08/2017

Radiohead

Arena Sferisterio, Macerata


Non è molto facile per chi scrive, come per ogni altro marchigiano, mantenere il dovuto distacco che il dovere professionale esigerebbe nel descrivere questa serata. Si perdonerà quindi ogni eventuale fuga retorica.

Vivere in questa parte delle Marche, quella pubblicizzata (non senza qualche ironia, a volte) come “tranquillamente Marche”, autocompiaciuta del proprio stato di relativa incontaminazione, è un’esperienza che vive di silenzi e panorami, ma anche di distanza dal frastuono dei grandi eventi. Quante volte ci si ritrovava da queste parti davanti a qualche birra, tra appassionati di musica live? Gruppi di bambini troppo cresciuti soliti scomodare treni e voli per “solo” una botta di adrenalina di un paio di ore, fatta di colpi di cassa che tuonano sul petto e distorsioni stordenti. Quante volte, ripensando a l’ultimo concerto vissuto in mezzo a un oceano di persone, si faceva quella battuta telefonatissima: “Dai, ci organizziamo e li facciamo venire allo Sferisterio di Macerata!”. Neanche faceva ridere, tanto sembrava ridicola quell’idea, accostata a una così piccola realtà di provincia.

Poi successero delle cose. Quella regione finì inaspettatamente sulla lingua di tutti dopo che la terra iniziò a tremare. Ma fu una fama effimera, di quelle fatte di sensazionalismi e voglia di scoop, perché ben presto le colline leopardiane tornarono in quell’anonimato, un tempo dolce ma a quel punto incupito e dolorante per ferite che resteranno aperte a lungo. Sicuramente anni. Magari decenni.
A qualcuno tutto ciò non stava bene. Ci voleva l’intervento di uno straniero dai capelli neri e il ciuffo ganzo, come nei fumetti. Pure lui, come certi personaggi di fantasia, ne aveva fatte e viste tante. Probabilmente anche troppe, vista la voglia di staccare da tanta sovraesposizione. Voleva un rifugio sperduto. Un paradiso che altri - troppo abituati a viverci - potrebbero vedere come un inferno di noia, chissà. In quel paesino nel fermano, tale Monsampietro Morico, Jonny Greenwood villeggiava come il tipico inglese perso nelle Marche. Un casale nascosto tra campi e strade imbrecciate. Fino a quella notte del 24 agosto, dove per poco non se lo ritrova in testa, quel casale, sempre per la storia della terra che trema. Alla faccia delle “tranquillamente Marche”.


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Come impedire che i riflettori sulla scena sfumassero definitivamente nel buio? Forse nessuno meglio del chitarrista dei Radiohead e del suo più popolare compagno, Thom Yorke, sapevano come tenerli ben puntati, accesi sull’obiettivo. Di fronte alle settantamila persone del recente live a Firenze (bissate poco dopo a Monza) scattava quindi l’annuncio bomba: “Abbiamo intenzione di fare un live di beneficenza allo Sferisterio di Macerata, il prossimo 20 agosto”.
E’ così che la splendida arena, ben nota nell’ambito dell’opera, diventò con i suoi risicati 2.800 posti l’obiettivo di decine di migliaia di fan. Per fortuna le cose vennero fatte per bene, probabilmente per volontà degli stessi artisti: biglietti nominali, documento di identità all’ingresso, posti visibili e prezzi disponibili già diverso tempo prima dell’apertura delle vendite. La conseguente polverizzazione in pochi minuti fu un side-effect comunque inevitabile, ma ogni bagarinaggio fu scongiurato.

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Arriva alla fine il giorno del grande evento: dopo un’attesa che sembrava infinita, la città di Macerata è assalita da gente di ogni luogo, compresi inglesi, messicani e abitanti della Grande Mela. Scorgiamo anche un paio di personaggi noti, come Claudio Santamaria e Cristina Donà, quest’ultima un’habitué dei live della band inglese.
E il concerto? Non è solamente un concerto ma un omaggio alla terra che lo ospita, a partire dagli artisti - scelti personalmente da Greenwood - che hanno il pesante compito di aprire lo show: il quartetto di archi Cubis Quartet, composto da Aldo Campagnari, Cristiano Giuseppetti, Vincenzo Starace e Federico Bracalente, insieme al bandoneonista Daniele Di Bonaventura. Un complesso in buona parte di estrazione fermana, come il buon Jonny in fin dei conti, che ha garantito la giusta atmosfera preliminare muovendosi tra composizioni di Schubert e Shostakovic.

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Poi entrano quei due, quelli che i moltissimi marchigiani accorsi non avrebbero immaginato a casa loro neanche nei loro sogni più proibiti. Sì, chiamare concerto ciò che segue è senza dubbio riduttivo, perché dopo una manciata di brani le distanze con la platea sono già annullate. Ci scappa la battuta in italiano traballante su quanto sia difficile rendere il trip elettronico di “Bloom” al pianoforte. Ci scappa anche qualche errorino, tipo un Greenwood che si “addormenta” quando c’è da cambiare il pattern della drum-machine (“Hey, Jonny…”, lo pizzica divertito Thom) o lo stesso Yorke che si impappina cercando di spegnerla alla fine di “Present Tense”. Ci sta, del resto il duo Yorke-Greenwood ha visto la luce pochissime volte in carriera e stanno lì a testimoniarlo le due ore e mezza abbondanti di soundcheck del pomeriggio.
Thom è particolarmente allegro, siamo alla serata tra amici quando gioca a botta e risposta fischiettando con il pubblico o quando imita l’inglese sguaiato di uno spettatore particolarmente euforico. La venue raccolta, dal caratteristico arco formato dall’Arena, incentiva i presenti a tentare la richiesta di brani, prendendosi le pernacchie spiritose dei due inglesi in villeggiatura (“Sì, te la suoniamo… però dopo!”).
 
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Ma, al netto di qualche sbavatura, lo spettacolo è anche e soprattutto una performance impressionante dal punto di vista tecnico. “In Rainbows” diventa più potente in questa veste minimale, sfoggiando una “Nude” fragile e vibrante da gelare il sangue, per non parlare del delicatissimo intreccio tra pianoforte e xilofono in “All I Need”. I due cervelloni dei Radiohead si muovono - scanditi dai beat elettronici - come due neuromanti gibsoniani in quella Stonehenge di chitarre, pianoforti e tastiere, illuminati dalle spie scintillanti dei computer. Tra i grandi classici spuntano anche le chicche, tipo “A Wolf At The Door”, cattiva e abrasiva, appesantita per paradosso da questa nuova veste spoglia. Così come trova spazio “Cymbal Rush”, tirata fuori dalla discografia solista del frontman albionico, per non dire “Follow Me Around”.
Sarà la situazione rilassata, o magari l’acustica perfetta di uno Sferisterio più suggestivo che mai, ma la voce di Thom risuona pulita e potente tra le colonne dei palchetti come poche volte è capitato di sentirla. Le corde vocali dell’alieno donano al fortunato pubblico una “Pyramid Song” incredibile, tuonante, così come “Exit Music (For A Film)” zittisce tutti rispettando la tradizione.
Greenwood, da parte sua, imbastisce il solito palcoscenico di ritmiche, rintocchi pianistici e tappeti synth; puoi notare la sua bravura in mezzo al solito prato sterminato colmo di spettatori urlanti, figuriamoci in questa occasione dove sembra di averlo nel salotto di casa. Il marchigiano acquisito più amato del momento si dà da fare con il fioretto nei ricami di “The Numbers” e con la sciabola nel finale roboante di “Karma Police”, ultimo colpo di una raffica di bis che pesca dal poker magico “The Bends”, “OK Computer”, “Kid A” e “Amnesiac”.

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Per usare una frase fatta, è di quelle serate che potrebbero durare tranquillamente altre tre ore senza stancare. Ma il sogno termina qui, con la sincera commozione di due inglesi che si rivelano più mediterranei di quanto uno potesse pensare. “Grazie ragazzi” è il loro saluto mentre sfumano nell’ombra a lato del lunghissimo palco maceratese.
Ancora storditi, i presenti se ne vanno. Per due ore qualcuno si è divertito, tanti si sono emozionati, tantissimi hanno dimenticato per un po’ il triste motivo che ha portato alla genesi di un evento tanto grandioso, come se il tempo si fosse fermato.

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Chissà se e quando realizzeranno ciò che è avvenuto stasera, cosa abbia significato per questa terra. Alcuni forse non lo capiranno mai; altri lo porteranno nel cuore, dentro le pieghe delle sue ferite, per sempre.
L’impossibile è avvenuto, la storia è segnata. Ora, per colpa di questi due inglesini, durante le nostre birre tra “concertari” ci toccherà inventare una battuta nuova.

Contributi fotografici a cura di Alfredo Tabocchini e Iuri Martelli