31/03/2017

Woods

Spazio 211, Torino


La prima e unica volta che avevamo incrociato dal vivo uno dei Woods doveva essere il 2011, e a suonare su un piccolo palco torinese in quel caso non c’era la combriccola guidata da Jeremy Earl bensì lo svago collaterale del bassista Kevin Morby e della Vivian Girls Cassie Ramone, i The Babies. Da allora di acqua sotto i proverbiali ponti ne è passata parecchia, i Woods sono regolarmente in circolazione con tre (quasi quattro) album in più nel proprio ormai ragguardevole catalogo su Woodsist, mentre è stato proprio Kevin a fare le valigie per andare a cercare (e trovare) maggior fortuna a proprio nome in Dead Oceans. Nemmeno l’unico tassello sostituito, per giunta, visto che anche la batteria e le tastiere della formazione statunitense hanno cambiato titolare nel frattempo, quasi assecondando quell’inclinazione a un progressivo metamorfismo che Jeremy e compagni non hanno mai smesso di manifestare a vari livelli. Tra le costanti virtuose della compagine newyorkese, sull’altro piatto della bilancia, la brillantezza di prove dal vivo spesso raccontate con entusiasmo dai testimoni e recentemente fissata su nastro dal primo live album della ghenga, il “Live At Third Man Records” registrato nientemeno che nella Blue Room dell’etichetta di Jack White, a Nashville.

220x270_01_08Il desiderio di saggiarne personalmente le benemerenze trova oggi un compimento grazie alla sempre meritevole opera delle volpi del TOdays, abili a regalare agli appassionati non solo un festival estivo di enorme richiamo, ma anche un discreto numero di appuntamenti all’altezza dei gloriosi trascorsi dello Spazio 211, venue in cui Jeremy e soci si esibiscono stasera per la prima di quattro nuove date italiane. L’occasione, in linea teorica, dovrebbe essere la promozione del decimo, imminente Lp della ditta, quel “Love Is Love” atteso tra tre settimane. Tutto però, dalle t-shirt gialle che scorgiamo sul banchetto appena varchiamo la soglia al teschio stilizzato di “City Sun Eater In The River Of Light” che fa bella mostra di sé sulla grancassa al fondo della scena, lascia presagire che lo spettacolo di oggi andrà a celebrare proprio il notevole disco che i Woods hanno pubblicato all’inizio della scorsa primavera, di fatto confermando la felice incontinenza creativa che da sempre ne contraddistingue le gesta in studio. Sana e inevitabile, allora, la curiosità del discreto pubblico che si presenta nel locale di via Cigna a ridosso del via, per una volta senza il balzello dell’immancabile gruppo spalla da sciropparsi a prescindere. Una piacevole sorpresa che appuntiamo in cima a una lista ancora tutta da scrivere sul nostro ideale taccuino.

220x270_06_07Che razza di Woods stanno per comparire da dietro la tenda nell’angolo? Beh, certo il folk-noise abbastanza miserabile dei primi successi è ormai un ricordo lontano e ci sentiamo di escluderlo con buona sicurezza: la bassa fedeltà da audiocassetta è stata accantonata per lasciare posto a produzioni sontuose, con il coefficiente hipster ridimensionato a una soglia relativamente accettabile. Parimenti resta innegabile che dalle acide e dissonanti animazioni freak degli esordi alle imbarcate psichedeliche o i sudici bozzetti surf-pop di poco successivi, la band di Brooklyn abbia proseguito nella sua instancabile ma irregolare evoluzione approdando in ultimo al country-soul-rock levigato e rigoglioso di oggi, con più di una concessione agli esotismi, al funk, alle ibridazioni curiose e, in qualche caso, nemmeno troppo vagamente cinematografiche. File under Normalization, ça va sans dire. Per quanto la stagione “eroica” e scapigliata del gruppo sia andata in archivio senza discussioni, possiamo peraltro ritenerci fortunati, forse, che questo primo incontro giunga così tardivo: il rischio delle provocazioni buttate lì ad arte, il prevalere dei formalismi un tanto al chilo sulla sostanza delle canzoni, il fare smargiasso delle matricole aggrappate in modo persino irritante all’esatta irriverenza (all’acqua di rose) del proprio sound, dovrebbero essere tutte eventualità ormai ridotte allo zero, nel loro caso.

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Ed eccoli, alla fine. Al centro Jeremy, che con la barba, i grossi occhiali e quel cappellaccio di lana in testa ci ricorda un Lucio Dalla giovane. Alla sua sinistra il bassista dagli occhi a mandorla Chuck Van Dyck e il fidato Jarvis Taveniere, (co-)produttore dei dischi della casa e unico altro membro fondatore; alle loro spalle il “moretto” Aaron Neveu, accomodatosi dietro ai rullanti, mentre a destra si piazza con la sua tastiera Nord Electro 2 l’ultimo arrivato della combriccola, il Ladybug Transistor Kyle Forester, già visto su questo palco nelle file dei Crystal Stilts. Un cenno silenzioso e si parte con “Leaves Like Glass”. L’inconfondibile falsetto di Earl, che imbraccia una Yamaha acustica, fatica a farsi apprezzare, sovrastato dalla pienezza di corpo degli altri strumenti. La cifra tersa degli ultimi lavori trova un immediato riscontro, per fortuna, ma il volume del microfono è troppo basso per far sì che il cantato non esattamente vigoroso di Jeremy riesca a imporsi. Le cose migliorano in parte già con la successiva “Politics Of Free”, classica festicciola tra folk e sunshine-pop della band. Due titoli appena e già appare chiaro che a fare la parte del leone saranno le due uscite più recenti, marcatura abbastanza eloquente dell’indirizzo espressivo di un’esibizione sostanzialmente in linea con le previsioni, suggellata dagli eleganti fregi disegnati dalla Guild di Jarvis: è proprio quest’ultima, come testimonia “Hollow Home”, l’autentica protagonista dell’attuale corso sonoro del gruppo americano.

220x270_03_08Se la cifra si attesta quindi su questa piacevole quanto innocua norma soft-rock, le cose prendono una piega assai più frizzante e movimentata quando Earl accantona la Yamaha per rimpiazzarla con una malandata Silvertone nera. Il dialogo tra le due elettriche, ben assecondato dall’asciuttezza della parte ritmica (la batteria di Neveu, in particolare, davvero convincente) e lanciato con la più caraibica “Sun City Creeps”, è subito entusiasmante, ma si infiamma letteralmente con la successiva “The Take”, un brano che sull’album non ci aveva fatto impazzire ma che nel suo torrenziale sviluppo si segnala stasera come uno dei più spettacolari visti in oltre dieci anni di frequentazioni qui allo Spazio 211. Con il suo indubbio physique du rôle, il casco di capelli sugli occhi degno di un Tim Burgess e le nuance di una chitarra che dispensa meraviglie, Taveniere conferma di essere il vero fenomeno dei Woods, l’anima più guizzante e imprevedibile. Ne è anche il principale corista e l’ambasciatore, in un certo senso, visto che le rare battute profferite dal gruppo ce le porge la sua voce. Jeremy risponde con dei sorrisi tirati al crescere degli applausi, ma per il resto è una sfinge come gli altri musicisti, non ultimo un Forester che si concede garbate diversioni sintetiche negli intervalli tra un episodio e l’altro.

220x270_04_07Tornata la Yamaha, l’intensità si smorza inevitabilmente, ma sembra l’occasione propizia per rispolverare quel paio di titoli più “stagionati”. Oddìo, si tratta dei recuperi di “Cali In A Cup” e “Be All Be Easy” (da “Bend Beyond” e “Sun And Shade”, rispettivamente) – la prima all’insegna di un jingle-jangle davvero troppo effettato e lezioso – quindi questione di appena cinque o sei anni fa, un’inezia. L’ottimo mestiere compensa in maniera egregia il ridotto fervore e la maggior convenzionalità dei nuovi bozzetti country-folk (puntuale ma risaputa l’armonica di Kyle) ma l’impianto tradizionalista non rappresenta di per sé un limite. Ne è una prova la più dylaniana “Shepherd”, con un Earl finalmente all’altezza delle suggestioni pastorali su disco e un Jarvis oltremodo misurato con il velluto della Guild accarezzata dallo slide.
Dopo averci fugacemente presentato un inedito dal nuovo album (non il nuovo singolo “Love Is Love”, comunque) la formazione di Brooklyn sceglie di tornare ad alzare l’asticella con un’altra doppietta pazzesca animata (in condivisione) dalla Silvertone del frontman con le sue brave deleghe rumoriste: la migliore delle canzoni recenti, “Creature Comfort”, e soprattutto la tentacolare “With Light And With Love” in una versione assai più stimolante di quella che conoscevamo, con le due elettriche a duellare, intrecciarsi, scambiarsi il ruolo di leader. Scroscio di applausi e selva di ululati in chiusura, ad accompagnare l’uscita di scena dei Woods.

220x270_05_08E “At Echo Lake”, ci si chiederà a questo punto? Resta un po' il convitato di pietra della serata, salvo poi palesarsi con l’osella di “Suffering Season” quando è l’ora di quel paio di bis, in scioltezza. Meglio comunque la “Moving To The Left” scelta dal gruppo per congedarsi, con l’acustica elettrificata di Jeremy finalmente sgravata dell’aplomb classicista per latrare nervosa all’inseguimento della sorella, là tra le mani di un Taveniere tarantolato.
Non male come prima volta con loro, e pace per l’assenza di un Morby evidentemente – le dinamiche a questo punto ci sono chiare – non così cruciale. Nell’attesa di “Love Is Love”, ripieghiamo su quella t-shirt gialla col teschio che avevamo adocchiato un’ora e mezza prima e che ora proprio Jarvis ci porge: una medium che, scopriremo poi, pare un tendone da circo. L’acquisto, ad ogni buon conto, era doveroso.