07/09/2019

Lonnie Holley

Hana-Bi, Marina Di Ravenna


"Lonnie plays his songs only once". Davvero vi aspettavate un concertino regolamentare dall'ultimo grande outsider della musica statunitense? Per tutta risposta, beccatevi questi tre quarti d'ora di trance cosmica, rigorosamente improvvisati da cima a fondo. E chi, gridando alla freak exploitation, sta già storcendo il naso per l'introduzione sensazionalistica del presentatore forse non ha ben chiara la cornice del personaggio: Lonnie Holley è figlio di quell'America lì, un fenomeno da medicine show con tanto di imbonitore senza scrupoli, pronto a cavalcare il lacunoso passato del suo assistito per titillare un pubblico famelico di eccentricità. La verità è che ci sentiamo tutti un po' in colpa: se siamo qui, d'altronde, è anche perché ci siamo lasciati conquistare da quell'assurda vicenda - che, non ce ne vogliate, eviteremo di raccontare per l'ennesima volta. Molti si sono fermati lì, accontentandosi della didascalia biografica per incoronarlo a scatola chiusa artista di culto, ma grazie al cielo il vecchio Lonnie è molto altro: uno stregone magnetico e imprevedibile come questa piovosa serata di fine estate.

A dispetto dell'aura mitologica che lo precede, l'ingresso in scena è tra i meno spettacolari: claudicante, capo chino, eppure regale nel suo portamento da sciamano sciancato, grondante di anelli e monili tintinnanti come un George Clinton in salsa voodoo. Impiega un'eternità a sistemarsi sull'altare ornato di motivi africani, cabina di pilotaggio della sua scarna Arkestra (solo un batterista e un tastierista ad accompagnare la sua voce e il suo sintetizzatore), con una flemma così esasperante da tenerci fino all'ultimo con il fiato sospeso. Sarà per questo che le prime note sprigionano un'energia liberatoria, come i primi crepitii di un vulcano prossimo all'eruzione: inizia la batteria, poi un piano elettrico sul punto di evaporare tanto è impregnato di chorus, mentre Lonnie srotola pian pianino il suo salmodiare da capogiro. La base strumentale si nebulizza in un dub sottomarino per poi farsi via via più jazzata, sballottata da tre strumenti che improvvisano ormai a ruota libera. Il tastierista soffia dentro un'armonica mentre il leader arrota ogni consonante e si dondola come uno Stevie Wonder in acido, scagliando in ogni direzione i lunghi dreadlock. La marea si placa e lui fischietta manco passeggiasse con le mani in tasca, ma proprio in quel momento parte una carica blaxploitation che nemmeno l'Isaac Hayes dei giorni buoni e la catapecchia collassa su se stessa. Se l'andazzo è questo, c'è davvero da uscirne storditi.

Biascica qualcosa a proposito del mare, la campagna italiana e il treno che l'ha portato da Roma fino a Ravenna, con quella voce da speaker strafatto meravigliosamente impastata dal suo accento southern: è un piacere ascoltarlo anche quando non canta, come non ci si stanca mai di guardarlo nella sua maestà da benevolo capo tribù. Intanto inizia a prendere forma un flusso sonoro simile a una risacca, piatti accarezzati dai mallet, glitch tremolanti e un freestyle serrato da annichilire anche il più scafato dei rapper, sparato con una mira da pistolero che contrasta con l'apparenza trasandata.
A che genere di spettacolo stiamo assistendo? La risposta, pur senza essere interpellato, la fornisce lui: "I am an artist and I'm doing art, because that's what artists use to do". Non fa una grinza dal punto di vista logico ed è detonante sotto il profilo concettuale: poche false modestie, Lonnie sa fin troppo bene quanto è bravo e ci tiene giustamente a puntualizzarlo. Qualcuno può forse dargli torto?

Ma il tempo per i sofismi scarseggia, perché è già partito un bordone di organo tampinato dal leslie. Ci si aspetterebbe un lamento immoto e invece ci travolge una locomotiva soul, con Lonnie posseduto da Gil Scott-Heron in persona tra uno scat disarticolato e un balletto da autentico tarantolato.
Scherza con i gregari presentandoli con nomi di fantasia, ci informa che questa è l'ultima data del suo primo tour europeo e che è contento si svolga su una spiaggia, conclude affermando di sentirsi un re. Pochi dubbi su quest'ultimo punto: lo è eccome. Eppure è ben poco sontuosa l'impro che sta per delinearsi, la più sperimentale del lotto: spazzole, campane, virgole di synth, hi-hat a serramanico, una tempesta di white noise, in un'atmosfera così tesa da far invidia al primo Barry Adamson. E sono le stesse tinte noir a dominare il seguito, meno cupo ma più ubriaco, come se Harry Belafonte fosse accompagnato da una versione post-punk degli Holy Modal Rounders. Ancora una volta non ci si fa mancare nulla, con un rullante tutto pigiato sul bordo e uno scoordinato basso sintetico a modulare prima una marcetta poi un carillon, il tutto sottolineato da movenze sempre più spastiche.

Né delude la chiusura, un sincopato blues da ore piccole che ingrana una marcia dopo l'altra e accelera in un raid militare, ma di una milizia quantomai sguarnita, l'unica possibile dato il generale che la guida. La voce è ormai un pianto straziato (riuscite a immaginarlo un Kevin Coyne del Delta?), e non c'è nulla di meglio di un'alluvione di lacrime per lavare un campo di battaglia con nessun morto ma tantissimi feriti.
Un ultimo sguardo spiritato in direzione del pubblico, per poi ripetere all'inverso la zoppicante via crucis iniziale. Lungo la strada stringe qualche mano e pare quasi offrirsi al tocco smanioso dei suoi adepti, reliquia umana da sfiorare per constatarne la conservazione più che per ottenere benefici apotropaici.

Sopravvissuto devastato e devastante, capace come pochi di elevare le proprie tragedie a drammi dalla portata universale, Lonnie Holley rimane tra le ultime esperienze realmente sconvolgenti che la musica contemporanea può offrire. Infestate da spiriti antichissimi e sfiorate da un costante senso di minaccia, le sue messe laiche finiscono con l'infondere un profondo attaccamento alla vita e agli esseri umani. Chi fosse in cerca del più autentico spirito nero tra le paludi di una black music ormai edulcorata e contraffatta, non ha che da abbandonarsi nelle spire ipnotiche di questo dolcissimo griot dagli occhi di fuoco.