Non è un legame banale, quello che unisce Roma e i Porcupine Tree. Proprio nella Città Eterna, infatti, con la complicità della (allora) lungimirante Radio Rock, un giovane Steven Wilson costruì la sua prima vera fanbase all'estero, agli albori del decennio 90, quando ancora si dilettava come one-man-band con i primi demo a nome Porcupine Tree pubblicati sull'Ep “Yellow Hedgerow Dreamscape” e quindi con il primo frutto ufficiale su Lp, il doppio “On The Sunday Of Life” del 1992. Un piccolo culto in grado di riempire club di riferimento dell'epoca come il Palladium e quel Frontiera dove nel 1997 la band di Wilson inciderà il live “Coma Divine”, a suggello proprio di questo rapporto speciale con la Capitale. Erano gli anni in cui le suite psichedeliche dell'Albero del Porcospino si ascoltavano a occhi chiusi, sdraiati per terra a guardare (o immaginare) stelle e galassie di un cielo in movimento: The Sky Moves Sideways. Quel seguito affettuoso è rimasto e si è anche moltiplicato, come confermano gli spalti gremiti della Cavea. Ma niente di quell'esperienza tornerà stasera. Perché i nuovi Porcupine Tree, risorti a sorpresa con “Closure/Continuation” (2022) dopo tredici anni di morte apparente, hanno operato una cesura netta col passato. Nessuno spazio alla nostalgia (anche nostra) per i brani degli anni Novanta, tagliati completamente fuori da una scaletta tutta puntata sull'ultimo lavoro e sui muri di suono più robusti dell'ultimo ventennio. Eppure, sarà un trionfo.
L'acquazzone del pomeriggio lascia in dote alla serata romana un mix di Ponentino e umidità. Prendiamo posto tra i seggiolini della Cavea in un clima già elettrico, sottolineato da un crescendo d'archi che farà da ideale intro all'irruzione sul palco della formazione inglese. Si parte con un'energica “Blackest Eyes”, ouverture di “In Absentia” (2002) che sposa al meglio chitarroni aggressivi e una melodia corale, scaldando subito la platea. Ma è proprio la successiva doppietta da “Closure/Continuation” con i due gioielli del disco - la lunga suite prog-rock di “Harridan”, cadenzata da convulse linee di basso, e la trasognata e classicissima ballad “Of The New Day” - a scatenare il pubblico: Wilson, rigorosamente a piedi nudi anche in quest’occasione, prova appena ad accennare all'eventualità di occupare in piedi qualche posto sotto il palco che centinaia di spettatori si catapultano a ridosso della band. “Troppo tardi!”, commenta divertito. È insolitamente loquace, il frontman inglese, intrigato dall'atmosfera di fedeltà, quasi di devozione, che si respira nell'aria. “Ora facciamo due brani da un nostro vecchio album del 2005, si chiama ‘Deadwing’”, annuncia, entusiasmando i fan del disco che consolidò la controversa (all’epoca) virata progressive metal, dal quale rispolvera la più riflessiva “Mellotron Scratch”, sorta di meditazione sensoriale in un saliscendi pop, e la possente “Open Car”, ovvero il verbo prog-metal dei Tool declinato in chiave Porcupine Tree, tra chitarre debordanti ma mai eccessive, tumultuosi groove di batteria e improvvise frenate scandite da lievi tocchi acustici, per uno dei brani più amati della “seconda vita” del Porcospino.
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Il carismatico Wilson si cala con gusto nel ruolo del frontman, incarnando una sorta di ibrido impossibile tra un nerd e una rockstar, con la sua gestualità e le sue schitarrate al fulmicotone. Si destreggia tra chitarre (elettriche e acustiche) e piano. E canta benissimo, al di là delle più rosee previsioni. Ad accompagnarlo sul palco, il fido Richard Barbieri (ex-Japan), che tesse le fila del sound dietro le quinte delle sue tastiere acclamato dal pubblico, mentre è proprio un’ovazione ad accompagnare quella macchina da guerra ritmica di nome Gavin Harrison (non a caso anche attuale batterista per i King Crimson): “Ehi Gavin, non sapevo che avessi un fan club qui”, ironizza compiaciuto il leader. La vera rivelazione della serata, però, è il turnista che li accompagna in questo tour, l’infaticabile Randy McStine, perfetto “controcanto”, oltre che chitarrista sopraffino e autore di molti degli assoli del set. Peccato solo per l’assenza del bassista Nate Navarro, costretto a dare forfait “per urgenti motivazioni familiari” – ci informa Wilson – e rimpiazzato, un po’ a sorpresa, “con l’uso della tecnologia, attraverso sue registrazioni pregresse”.
Il live alterna momenti di trasognata malia acustica - la struggente ballata “Dignity”, sempre dall’ultimo “Closure/Continuation” (non l’avremo tutti un po’ sottovalutato?), – a incursioni dinamitarde nel rock più heavy della band inglese, propulso dalle rullate di Harrison, come con l’epica “The Sound Of Muzak” (da “In Absentia”) con la sua terrificante profezia sul futuro della musica (“The music of the future/ Will not entertain/ It's only meant to repress/ And neutralize your brain”) e con la non meno distopica “Last Chance To Evacuate Planet Earth Before It Is Recycled” (il più lungo salto indietro del set, da “Lightbulb Sun”, 2000). Scorrono immagini di un futuro inquietante. “I miei testi sono sempre molto ottimistici”, scherza Wilson, confortato dall’ovazione del pubblico. Poi si accorge che la piazza della Cavea è intitolata al maestro Luciano Berio: “Lui è stato determinante per la mia formazione, chi conosce le sue opere… ad esempio ‘Visage’?”. E di fronte all’imbarazzato silenzio generale, ironizza deluso “Oh, it’s quite disappointing!”. Nemo propheta in patria…
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In scaletta c’è spazio anche per le convulse e oblique strutture prog a tinte crimsoniane di altri due brani dell’ultimo lavoro (“Chimera’s Wreck” e “Herd Culling”), per un unico ripescaggio da “The Incident”, l’apparente canto del cigno del 2009 (la semiacustica “I Drive The Hearse”) e non può mancare l’omaggio a un altro disco significativo della loro saga come “Fear Of A Blank Planet” (2007), con due tracce: la torrenziale “Anesthetize”, ribollente magma psych-rock di oltre 17 minuti che si snoda tra riff distorti, progressioni sapienti, intermezzi acustici e imponenti wall of sound, senza stancare nemmeno per un attimo, e a seguire la sinuosa “Sleep Together”, con i pad e i ghirigori di tastiere di Barbieri in splendida evidenza.
Tornati sul palco per gli encore, i Porcupine Tree si congedano con una magica tripletta, inaugurata da una struggente “Collapse The Light Into Earth” (da “In Absentia”), con Wilson al piano e centinaia di smartphone accesi nella notte, da un’altra traccia di “Deadwing” (la rocciosa “Halo” imperniata su cicliche linee di basso) e quindi con “quella che è stata forse la nostra unica hit” - come la annuncia Wilson - ovvero la melodica “Trains” (che in effetti domina anche gli ascolti della band su Spotify con quasi 30 milioni di visualizzazioni): il suo raffinato intreccio di orecchiabilità acustica e sequenze strumentali più dure ed elettriche va a incoronare idealmente “In Absentia” come album di riferimento della “seconda vita” della band inglese. Almeno a giudicare da questa scaletta.
Si chiude dopo due ore e dieci di concerto senza mai una pausa o un calo di tensione: i più esigenti noteranno come, rispetto ad altre date del tour, manchino all’appello tre tracce, tra cui la title track di “Fear Of A Blank Planet”, ma stasera il pubblico della Cavea è già appagato ed emozionato così. Tributa ai Porcupine Tree una standing ovation, forse all’intera carriera, se questo resterà davvero il loro ultimo tour, e conserva nel cuore anche tutti quei brani degli anni 90 vanamente richiesti da qualcuno (da “Radioactive Toy” a “Synesthesia”, da “Waiting” a “Stars Die”) che hanno contribuito in modo non meno determinante di quelli ascoltati stasera a fare la storia di uno dei migliori gruppi rock degli ultimi trent’anni.
Foto © Fondazione Musica per Roma / Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla
Blackest Eyes
Harridan
Of The New Day
Mellotron Scratch
Open Car
Dignity
The Sound Of Muzak
Last Chance To Evacuate Planet Earth Before It Is Recycled
Chimera's Wreck
Herd Culling
Anesthetize
I Drive The Hearse
Sleep Together
Encore
Collapse The Light Into Earth
Halo
Trains