Il biennio 1969/1970 fu per i Creedence Clearwater Revival un periodo assolutamente fortunato, felice oltre ogni aspettativa: cinque album e sette singoli, tutti nella top ten americana, un seguito di pubblico invariabilmente entusiasta, discografici e critici musicali gratificati come mai prima di allora. Con lo scioglimento dei Beatles, poi, i Creedence si laureavano unica e incontrastata "band da hit single" negli Stati Uniti, una macchina da ballo capace di mettere d'accordo opposte fazioni: hippie amanti della psichedelia e nostalgici del rock n' roll, liceali e universitari, radio mainstream e frequenze alternative. Al momento dell'uscita di "Cosmo's Factory" in pochi credevano a ulteriori exploit artistici, eppure i quattro californiani stupirono il mondo ancora una volta.
Il quinto disco dei Creedence Clearwater Revival (luglio 1970) usciva in realtà in un momento di forte tensione, stress e caos interno: tornati in primavera dalla prima tournée europea (con tappa alla storica Royal Albert Hall londinese), i ragazzi avevano bisogno di staccare dalla routine successo/disco/concerto/mass media e di rilassarsi un po'.
Lo strapotere del leader John Fogerty (voce e chitarra solista, sax, tastiere, compositore e manager) cominciava ad andare stretto al resto della band, in particolare al fratello maggiore Tom, con cui i rapporti non erano mai stati idilliaci. Malgrado i problemi, quello che si apprestavano a registrare era il disco più bello e venduto della carriera, epitaffio solenne di due anni vissuti al massimo.
"Cosmo's Factory" (n.1 in Usa e Uk) rappresenta la summa stilistica dei Creedence, riuscendo a mettere insieme tutti i vari ingredienti musicali: trascinanti inni rock perfetti per le classifiche, soffici ballate soul, tributi alle origini (rock n' roll, blues e r&b), country ed estese jam strumentali. Smentendo le accuse di "gruppo abile solo a 45 giri", i Creedence realizzano il loro disco più coeso, in cui ogni canzone ha una storia a sé. L'apertura è affidata a "Ramble Tamble", un ribollente up-tempo rock che viaggia a pieni giri come un treno merci, forte di un riff incisivo e reiterato e una prova vocale graffiante come al solito. Proprio quando sembra tutto finito, il brano rallenta e si trasforma: le chitarre raffreddano l'irruento calore delle frasi precedenti e virano in una lenta ballad che prosegue indisturbata fino all'ennesimo cambio di tempo e alla chiusura veloce, speculare alla prima parte.
"Before You Accuse Me" di Bo Diddley apre la parentesi delle cover (ben quattro in tutto l'album) e calma gli animi con una brillante prova di rock/blues, con ortodossi soli e pianoforte in sottofondo. Ma è solo un momento perché in agguato c'è la scatenata "Travelin' Band", col suo intro di sax tenore e il tiro micidiale di basso e batteria: la voce di John pare sempre in procinto di spezzarsi, tanta è la foga espressiva. Alzarsi in piedi e ballare sembra quasi naturale.
Le pulsazioni diminuiscono appena con "Ooby Dooby" di Roy Orbison, efficace tributo al rock n'roll della Sun Records, storica etichetta di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e dello stesso Orbison. Come nel caso di Diddley, anche qui è evidente il rapporto rispettoso delle radici anni 50 e le capacità camaleontiche che valsero loro la nomea di "ufficio stampa dei Fifties per la nuova generazione".
Con "Lookin' Out My Back Door" si esplorano gli orizzonti del country-rock: il tema del viaggio (più simile alle divertenti, picaresche avventure narrate da Mark Twain che al road trip lisergico di "Easy Rider") è dipanato attraverso uno shuffle dal ritornello contagioso, melodia efficace e saltellante. Praticamente l'opposto di "Run Through The Jungle", che con le sue esplosioni chitarristiche e i riff ossessivi ben rappresenta l'ambiente cui fa riferimento il titolo. Vengono fuori i Creedence più polverosi e lugubri, campioni di quel paludoso "jungle beat" che non può che ricordare il Vietnam: soldati in fuga, alberi tropicali e torride cascate di Napalm.
Scenari inquietanti che vedono un parziale rasserenamento con "Up Around The Bend" e "My Baby Left Me": grande riff di elettrica, cori e refrain perfetto per la prima, brillante rilettura rock n' roll (targata Presley, 1956) e consueti stop&go per la seconda.
A questo punto tutto è pronto per il grande capolavoro di John Fogerty, la splendida "Who'll Stop The Rain" in cui si torna a parlare proprio di guerra e Viet Cong. L'atmosfera però è più serena, corale e rilassata rispetto a "Jungle", illuminata com'è dai fraseggi aperti di chitarra acustica e armonie vocali da inno generazionale.
Con "I Heard It To The Grapevine" di Marvin Gaye il gruppo dimostra di aver assimilato alla perfezione anche le radici nere, riuscendo con naturalezza a riproporle, scovando nuovi territori espressivi e possibilità che neppure l'autore originale sognava di contemplare. In questo caso l'originale di Gaye perde tutta la patina sexy e glamour che aveva, sporcandosi le mani con undici minuti di sfiancante, eccitante jam di soul-rock allucinato. Il brano si trascina lento e imperturbabile attraverso insinuanti vortici chitarristici e solide briglie ritmiche (la coppia Stu Cook e Doug Clifford in forma strepitosa) verso un finale che non arriva mai e che, infatti, morirà in dissolvenza.
La conclusiva "Long As I Can See The Light" con il suo pigro andamento soul (memore dell'esempio della Band di Bob Dylan) chiude in maniera romantica il discorso, con un languido sassofono e uno sguardo ottimista verso il futuro.
In quarantadue minuti, la forma-canzone di Fogerty, ora fatalista e arrabbiata, ora compassionevole, vive l'apice creativo.
Sono bastati pochi anni per portare i Creedence in cima alle stelle dell'olimpo rock: un'abitazione celeste tuttavia da sempre sgradita alla band. I Creedence sono troppo innamorati di valori fuori moda per risultare "trendy": niente droga/sesso/violenza o ideali rivoluzionari, nessuna aderenza alle avanguardie o all'underground. L'energia pura, elementare, scaturita da quei brani non ha bisogno di chiavi segrete per essere codificata. Nessuna condivisione di atteggiamenti divistici né tantomeno lo stesso vocabolario o vestiario.
Per questi motivi non hanno mai varcato la soglia che dal culto porta all'icona culturale: diversamente dagli Stones, da Dylan o dai Doors, i Creedence Clearwater Revival non abitavano i sogni bagnati dei teenager. Con quelle barbe e occhiali non si rimorchiava, le camicione a quadri sarebbero tornate di moda solo vent'anni dopo. Eppure quel mélange di rock primitivo e schiette dichiarazioni populiste faranno dei Creedence la rock band "working class" per eccellenza: da Keith Richards a Bruce Springsteen e fratellanza (Petty/Mellencamp/Seger), passando per le frange del Southern rock (Lynyrd Skynyrd) e dell'alternative country (Gram Parsons; Long Ryders; Uncle Tupelo) troviamo sempre qualcuno che li ha ammirati, assimilati, rievocati nella propria musica.
29/10/2006