Amata, ripercorsa e analizzata sino allo sfinimento la densa produzione di Joanna Newsom, a quasi tre lustri di distanza dagli esordi autoprodotti, emergono in maniera fin troppo evidente i caratteri che l'hanno resa un'icona del songwriting contemporaneo. Un racconto che va di pari passo con le copertine dei primi tre dischi, come tappe di un insediamento progressivo nell'immaginario del pubblico: dai bozzetti naif sul collage di “The Milk-Eyed Mender”, talmente disordinato da rendere insospettabile la nascita artistica di una “bambina prodigio”, all'opulento tableau di “Have One On Me”, sul cui divano Joanna sta adagiata nella posa che più si addice a una diva hollywoodiana che tutti aspettavano al varco.
Tra i due sta il ritratto di “Ys”, assieme realista e allegorico, a designare l'album che già nasceva come un classico, non soltanto per la sublime qualità compositiva ma proprio a partire da quell'iconografia così fieramente antiquata e superba – ad opera di Benjamin A. Vierling – che immortala la Newsom in veste di nobildonna, a metà strada fra la ritrattistica barocca e le nature morte dei fiamminghi.
Un quadro che, per divenire quel che è, doveva necessariamente trovare il suo complemento in un apparato produttivo e di missaggio di prima categoria: rispettivamente Steve Albini e Jim O'Rourke, la cui prestigiosa consulenza viene da ultimo immortalata nel mastering avvenuto presso gli Abbey Road Studios londinesi. Certo, è anche con simili mezzi che si dà forma ad album leggendari, ma nessuno dei nomi in gioco risulta fuori proporzione rispetto al carisma e alla raffinata scrittura della Newsom, qui già nel pieno della sua maturazione artistica.
Credo di ricordare la sensazione provata al primo ascolto: in un disorientante coacervo di coloriture e impreziosimenti barocchi, dove la voce di Joanna era l’unico filo di Arianna nell'intricato svolgersi delle suite, mi trovavo intimorito e al contempo rapito dalla sveltezza della narrazione e da quella sorta di canto lirico accelerato, tra acuti e squeak improvvisi. Molto semplicemente, da ascoltatore giovane e ancora molto impreparato, stavo conoscendo la prima cantautrice che mi avrebbe davvero rubato il cuore.
Con la dovuta attenzione avrei poi dedicato tanti riascolti a quelle trame, facendomi strada con sempre maggior consapevolezza negli arrangiamenti del prolifico compositore e fisarmonicista Van Dyke Parks: da parte sua è stato quasi un miracolo riuscire a equilibrare l'ampiezza dell'ensemble (altri sedici strumentisti) all'interno dei vari quadri, calibrando ciascun intervento in maniera tale da evitare il rischio, combinato con la densità dei testi, di una stucchevolezza irricevibile.
La sola lettura dei testi – illustrati e disposti come in un libro di nursery rhymes nell'edizione in doppio Lp – rivela di per sé una musicalità e un'eleganza che riecheggiano inequivocabilmente i poemi di W. H. Auden, forbito e sensibile cantore della modernità, che fece rifulgere di uno splendore nuovo l'arte del componimento in rima. Con ulteriore ambizione la Newsom si prodiga nell'avvolgere una densa matassa di locuzioni in disuso, ognuna delle quali ha però un preciso ruolo, se non di significato, quantomeno fonetico.
Il lungo racconto che già si dispiega in “Emily” è un vortice di rimandi storici, nomi desueti di cose e animali, erudite nozioni di biologia e astronomia. Rivestimenti, appunto, orpelli che arricchiscono uno scenario campestre già fiorito in tutta la sua magnificenza, seguendo il proprio naturale e inarrestabile corso: in esso le anime di Joanna e della sorella Emily si uniscono idealmente sotto la stessa volta celeste, vicine col cuore benché relativamente distanti sulla Terra. Il ricordo di un'infanzia complice, ricca di scoperte sugli elementi naturali, è per Joanna l’espediente per riavvicinarsi idealmente a un'amica intima, oltre che a una parente stretta, attraverso la vocazione per l'astrofisica che la contraddistingue.
Anyhow, I sat by your side, by the water
You taught me the names of the stars overhead that I wrote down in my ledger
Though all I knew of the rote universe were those pleiades loosed in December
I promised you I'd set them to verse so I'd always remember
La favola della scimmia e dell’orsa (“Monkey & Bear”) rincara la dose sui virtuosismi vocali e metrici, adottando il ritmo frenetico e le vertiginose allitterazioni tipiche dello strampalato Dr. Seuss. In dieci minuti scarsi si accalcano, infatti, più di centocinquanta versi dalle rime irregolari, come un sovraeccitato gioco della campana a bordo pagina: le cadenze dell’ensemble si fanno via via più spigolose, una strofa dopo l’altra, di pari passo con i netti pizzicati di un’arpa che denota l’esatta rispondenza strumentale alla voce impertinente della Newsom.
L’astuto scimpanzé del racconto cerca di persuadere Ursula – l’orsa, per l’appunto – a non fuggire dal circo per il quale si esibiscono, una volta che si presenta loro l’occasione di sottrarsi alla cattività (But still/ They have got to pay the bills/ Hadn’t they?/ That is what the monkey would say). Accettando il rischio di una morte nella quale sono precedentemente incorsi due cavalli usciti dal recinto, Ursula decide di non apporre un prezzo sulla propria libertà, si spoglia dei suoi abiti di scena e scompare all’orizzonte, lasciandoci il dubbio della sua sorte futura.
A questo terzo cambio di scena il tomo presenta già un imponente accumulo di contenuti lirici, ma non ci troviamo nemmeno a metà strada e bisogna ancora fare più d’una scoperta: l’opera seconda della Newsom si rivela essere strutturata come uno scrigno che, dalle adorne intagliature e decorazioni esterne, conduce a un nucleo rivestito del più semplice ed elegante dei velluti.
Dal punto di vista tecnico, ma anche per una certa assonanza melodica, “Sawdust And Diamonds” parrebbe la versione adulta di “Bridges And Balloons”, il primo brano col quale Joanna si presentava ufficialmente sulla scena mondiale: i veloci pattern della sola arpa si inseguono con poche variazioni in una tessitura ipnotica di matrice minimalista – Philip Glass, naturalmente – che dà risonanza al tema dominante della vita dopo la morte, l’eternità e la bianca scalinata che vi conduce (From the top of the flight/ Of the wide, white stairs/ Through the rest of my life/ Do you wait for me there?).
Per una fortunata e inquietante coincidenza, il testo dall’alta densità poetica nasconde tra le righe un riferimento all’ispirazione assecondata per il titolo dell’opera e per gli immaginifici scenari che la pervadono nella sua interezza: Ys sarebbe il nome di una mitologica città costruita sulla costa bretone e in seguito sommersa dall’alta marea dell’Oceano Atlantico; la sua leggenda è stata narrata sin dall’età medievale e in epoca moderna ha ispirato numerose opere letterarie, una delle quali è giunta sul comodino dell’arpista grazie al prestito di un suo amico. A quel punto l’album era già completato e restava soltanto da assegnargli un nome: a Joanna non è rimasto alcun dubbio sulla scelta da fare, una volta incontrato il passaggio che evoca il risuonare della campana della cathédrale engloutie (citando un preludio di Debussy di identica derivazione) e che similarmente, con suo sommo stupore, si era già manifestata nel testo di “Sawdust And Diamonds”:
Then I hear a noise from the hull
Seven days out to sea
It is that damnable bell!
And it tolls — well, I believe that it tolls — for me
It tolls for me
Quasi non vista, Joanna mette a nudo le proprie inquietudini e scava nel profondo dell’umano sentire, spianando la strada al componimento più lungo della raccolta, la sintesi definitiva tra poema e concerto per arpa e orchestra da camera. Tradizionalmente, nella produzione musicale, una maggior durata funge di per sé da segnale d’allarme per l’ascoltatore: è perciò con sommo imbarazzo che recentemente mi sono accorto di non aver realmente ascoltato “Only Skin” per diversi anni: una leggerezza imperdonabile, trattandosi forse del più ammirevole sforzo scritturale della Newsom, talmente elaborato e sofferto da lasciar quasi senza respiro. Un rompicapo sul quale anche i fan più assidui continuano a interrogarsi senza successo, edotti soltanto del ruolo di legante che la suite intrattiene con gli altri quattro brani, corrispondenti ad altrettanti episodi cruciali nella vita personale di Joanna.
Ed è ancora l’aldilà da ciò che è corporeo – e dunque provvisorio – il nodo centrale di una narrazione che comincia in medias res e da subito accumula sensazioni disordinate, come in un sogno lucido nel quale gli unici profili che si stagliano nitidamente sono quelli di due amanti che si stringono, a metà strada fra l’idillio e la tempesta. Permane l’immagine più tangibile e imprevedibile: uno strato di pelle che nell’atto d’essere rimosso produce un suono melodioso di violini, come il velo che separa ciò che per noi rappresenta il sentimento d’esistere da un balzo nell’ignoto, ove non sappiamo se e che parte di noi e di chi amiamo sopravvivrà. L’esistenza è un fulmine catapultato verso la fine, ma in questo slancio forsennato potremmo avere la fortuna di trovare qualcuno che sappia fermare il tempo per noi:
We have everything
Life is thundering blissful towards death
In a stampede
Of his fumbling green gentleness
You stopped by;
I was all alive
In my doorway, we shucked and jived
And when you wept, I was gone;
See, I got gone when I got wise
But I can’t with certainty say we survived
Da par mio non so dire con certezza se in questi versi risieda il senso ultimo del brano o persino dell’intero album, ma a suggerirlo sono la solennità e il tono d’estremo congedo di questa epica traversata, lungo la quale non si perde mai l’assoluta centralità delle corde e della voce di Joanna, illuminata da un riflettore attorno al quale gli archi passano in fretta come ventate, si addensano e si diradano a mo’ di nuvole, laddove i diversi movimenti sono invece scanditi dal manifestarsi alternato di una fisarmonica, un banjo o una chitarra in clean (elementi sovrabbondanti che nell’Ep seguente verranno ironicamente riuniti sotto il nome di “Ys Street Band”). Non può essere che questo il vero atto finale, un canto del cigno traboccante di casta devozione e di completo dono di sé non avendo, a conti fatti, nulla di più da offrire:
And I’m going to be right behind you
And if the love of a woman or two, dear
Couldn't move you to such heights
Then all I can do
Is do, my darling, right by you
In contrasto con un arazzo così maestoso e onnicomprensivo, “Cosmia” rappresenta un quadretto dettagliatissimo e perfettamente conchiuso, l'atterraggio su un cuscino di sogno che dissipa ogni patimento ma non la passione, se possibile ancor più divampante. Risollevato il sipario, Joanna si concede un bis vibrante come un’aria d'opera neoclassica ma dolce come può essere soltanto una serenata, fra ritornelli e versi ricorrenti che fanno pensare a un richiamo d’amore inarrestabile (And I miss your precious heart). Così dalle ceneri di un altro lutto sorge un inno di vita e speranza, metaforizzato nel volo notturno di una falena che si allontana dallo sciame radunato attorno alla stessa luce per inseguirne un’altra più vera, o forse solo diversa – quella della luna.
Beneath the porch-light
We’ve all been circling
Beat our dust hearts;
Singe our flour wings
But in the corner
Something is happening!
Wild Cosmia, what have you seen?
Water were your limbs
And the fire was your hair —
And then the moonlight caught your eye
And you rose through the air
Well, if you've seen true light
Then this is my prayer:
Will you call me, when you get there?
Fucina di pensieri e sentimenti non sempre esplicitati con chiarezza, la Newsom ci parla in maniera elusiva della sua sensibilità di donna e compagna di vita, di una quotidianità filtrata attraverso una fantasia debordante e un frasario tanto sopraffino quanto assolutamente sorpassato. Rispetto alle canzoni dei dischi seguenti, dove il sentire del cuore si sarebbe finalmente messo a nudo, evocando contesti più consueti coi quali risulta molto più facile empatizzare, “Ys” vive sul contrasto tra l’ardente esplicitazione verbale e l’ermetismo dei sentimenti, in una selva di metafore, simbolismi e gomitoli lessicali che nemmeno anni di studi potrebbero delucidare fino in fondo (esistono blogger unicamente votati a tali impervie decrittazioni, come filologi intenti a dissezionare l’Ulisse joyciano).
Questa sorta di scudo rimarrà sempre, in qualche misura, la custodia di un segreto impenetrabile nel quale si cela l'animo fragile di una cantautrice tanto singolare: mentre nelle vetrine si affaccia l'ultima conferma di “Divers”, slegata dal realismo del ritratto per far spazio a un'espressione – sia grafica che scritturale – sempre più intima ed emotiva, tra pochi mesi questo irripetibile capolavoro compirà un decennio, guadagnando a pieno titolo quella statura di classico del terzo millennio che già preannunciava alla sua uscita.
27/03/2016