Faccione imbronciato alla Elvis, ciuffo incluso, e fascino da letterato incompreso, Lloyd Cole ha attraversato gli anni 80 in punta di piedi, seminando idee e intuizioni. Come tanti maestri della canzone melodica, però, ha finito col pagare proprio la sua classe superiore: troppo pulito ed easy listening per gli oltranzisti indie a caccia di dissonanze, troppo raffinato per il grande pubblico del mainstream, al quale dedicò anche il titolo di un album, a coronamento di un rapporto controverso, fatto di continui ammiccamenti e strappi. Almeno su un fatto, però, concordano (quasi) tutti: "Rattlesnakes" è il suo capolavoro, nonché uno di quei dischi che hanno saputo catturare, per un attimo fuggente, lo spirito di un'epoca intera. Mentre la stagione wave volgeva al crepuscolo e l'Inghilterra si avviava verso i sentieri del new pop e di una nuova generazione di artisti, Cole fissava magicamente il trapasso in un pugno di ritornelli e arpeggi fatati. Mescolando folk acustico, chitarre ruggenti dei Sixties (Byrds, Velvet Underground) e ballate decadenti (David Bowie, Marc Bolan).
Nato a Buxton (Inghilterra), il giovane Lloyd studia Filosofia all'università di Glasgow, in Scozia, dove incontrerà gli amici di una vita (artistica, quantomeno): Neil Clark (chitarra), Lawrence Donegan (basso), Blair Cowan (tastiere) e Stephen Irvine (batteria). Sono loro i Commotions, destinati a formare con Cole una di quelle sigle storiche, come Tom Petty & The Heartbreakers o Nick Cave & The Bad Seeds. Difficile immaginare uno senza gli altri, anche se - proprio come nei due casi citati - la tentazione della fuga solista si farà irresistibile.
Passano due anni dalla nascita del gruppo all'approdo su Lp. Ma quando nel 1984 esce "Rattlesnakes" si capisce subito che i nostri hanno le idee chiare e che il timone è saldamente tra le mani del capobanda. Il talento di Cole si materializza nelle sofisticate melodie, nelle citazioni letterarie dei testi (da Simon De Beauvoir a Norman Mailer), ma anche nei suoi modi da dandy, tra Bryan Ferry e Morrissey, pur con un pizzico di sana ruralità provinciale. Non particolarmente dotato dal punto di vista tecnico, Cole si mostra però interprete creativo, con un crooning sofferto e una disinvoltura alla Reed. Le sue storie raccontano episodi di vita vissuta, incontri sentimentali e più in generale umani, trasponendoli sul piano della memoria, riproducendoli con tratti di pennello impressionisti, per descriverne gli aspetti più curiosi e pittoreschi. Il tutto in linea con il tradizionale stream of consciousness letterario anglosassone di Joyce o Woolf, ma anche con l'arguto immaginario "pop" beatlesiano. La malinconia che affiora nei testi non frena l'ironia divertita e quasi satirica di un autore che pare vivere tutte le esperienze, comprese quelle amorose, con la curiosità compiaciuta dell'esploratore.
Ad aprire la tracklist è l'immortale arpeggio del singolo "Perfect Skin" (n. 26 nella Uk chart), un campione camuffato di wave residuale, dalle atmosfere desolate e malinconiche. Nonostante la base folk-rock à-la Byrds, il tutto è pervaso da una patinata glacialità decadente di fondo, che rimanda alla superficie translucida della "Be My Wife" di Bowie. Le chitarre jangle di Clark eseguono accordi fluidi e veloci, impastati con grande agilità, con un suono pulito e tintinnante. Cole si lancia in un'interpretazione vocale divertita, con quell'"Academia Blu-u-ues" a chiusura della prima strofa che suona tanto David Sylvian. Anche il testo rivela un profumo di estetismo decadente ("She's got cheekbones like geometry", "She's got perfect skin... At the age of ten she looked like Greta Garbo": pelle perfetta, diafana, appunto, come quella del Bowie di porcellana di "Be My Wife"), ma anche l'autobiografia di un promettente accademico, travolto dalle esperienze sconnesse della vita giovanile ("I choose my friends only far too well, and I'm up on the pavement and they're all down in the cellar, with their government grants and my I.Q., they brought me down to size, academia blu-u-ues"). È l'accademia dello studente dalle prospettive smarrite, che cede irrimediabilmente il posto alla vita e si tinge di blues.
Non è da meno il secondo singolo, la stupenda "Forest Fire", che con le sue soffici tonalità soft-rock, appena surriscaldate dal bell'assolo finale della chitarra elettrica di Clarke, incornicia una delle melodie sopraffine cesellate dalla penna di Cole, il cui tratto si conferma delicato e intenso al tempo stesso. Un gioiello che brillerà anche nella confezione più spoglia e acustica in cui Cole lo presenterà nelle recenti esibizioni live.
A determinare il successo del disco contribuiscono anche altri due colpi da ko, piazzati rispettivamente al terzo posto della scaletta e a chiusura della seconda facciata. Il primo è la trascinante title track, uno dei capolavori assoluti del gruppo, composto da Cole insieme a Clark. Non si riesce a capire come abbia potuto fermarsi al n. 65 della classifica inglese, se non facendo appello a un'inadeguata promozione. "Rattlesnakes" è uno dei grandi classici mancati della storia del rock, una di quelle composizioni che avrebbe dovuto diventare emblema del fare musica tipicamente "British", come la "Starman" di Bowie, con la quale condivide l'impostazione orchestrale. Non c'è una nota di troppo, la melodia è compatta, frutto di un'intuizione improvvisa, felice, illuminante. Il tutto è accompagnato da orchestrazioni rigogliose, che fioriscono nel celere minuetto dell'intermezzo (un possibile antipasto in miniatura della "Starálfur" dei Sigur Ros?). Le liriche, ispirate dal romanzo "Play It as It Lays" di Joan Didion, immortalano un altro personaggio femminile trasformato in archetipo universale, alludendo all'eroina del film "On The Waterfront" ("She looks like Eve Marie Saint in On The Waterfront").
L'altro pezzo cui si accennava è "Are You Ready To Be Heartbroken?", titolo perfetto per uno slogan sentimentale che accompagnerà per sempre la parabola di Cole. I coretti femminili riecheggiano un romanticismo alla Ferry, e anche l'interpretazione di Cole lambisce i sospiri struggenti dell'ex-leader dei Roxy Music. Le chitarre acustiche - protagoniste dell'intero album - si sublimano in un giro di accordi accelerato da brivido. Il brano è soffuso, dolce, etereo, ma le chitarre sono lanciate all'impazzata: l'effetto è spiazzante e trascinante, finché il brano si spegne nelle ultime note orchestrali che fluttuano nell'aria, congedandosi con una classe che riporta alla mente la beatlesiana "Good Night" ("White Album").
Cole si rivela maestro nel saltellare da un genere all'altro, pur all'interno di una rigorosa coerenza di fondo. Ogni brano è così un piccolo saggio di metamorfosi musicale. Come "Down On Mission Street", che parte con toni gravi e lunghe note profonde, per aprirsi nell'infantilismo giocoso del ritornello, mentre il pizzicato insistito e quegli archi sullo fondo richiamano allusivamente atmosfere orientali. O come "Speedboat", che nasce blues scheletrico e tagliente, e si scioglie inaspettatamente in un ritornello dolcissimo e onirico, che sembra stralciato dalla migliore produzione degli Smiths, altra band che seppellì il punk a suon di strimpellii sixties. Il jangle-pop resta la tela, ma le tinte possono colorarsi di suggestioni francesi (il crepuscolare valzer di fisarmoniche di "Charlotte Street", altra prodezza melodica e altra figura femminile memorabile), di scanzonate andature folk'n'roll ("Four Flights Up", con il suo rush energetico di chitarre accompagnate da delicati sintetizzatori relegati sullo sfondo), di orchestrazioni easy listening (il bozzetto pop di "Patience", adorabile anche nei suoi coretti kitsch iniziali e nelle sue orchestrazioni patinate, figlie dell'epoca), e di atmosfere bucoliche di stampo beatlesiano, come su "2cv", sorta di "Blackbird" à-la Cole, con un gioco di accordi di chitarre che dà l'impressione che esse procedano a tratti "a ritroso" e un testo che fa i conti con il disincanto per un'aspettativa sentimentale delusa, nel cuore di una torrida estate londinese.
Nel 1985 la Polydor pubblicherà una ristampa dell'album con alcune bonus track tra cui segnaliamo la tenera ballad "Sweetness", che non ha molto da invidiare alla "Charlotte Street" inserita nella scaletta ufficiale, e "The Sea and the Sand", che mette in mostra un altro di quei ritornelli deliziosi che all'epoca Cole sfornava con nonchalance.
L'impatto di "Rattlesnakes" non può essere ridotto alla sua modesta scalata alle chart britanniche (si fermerà al n. 13). Forse i tempi non erano ancora maturi (già il secondo disco, un anno dopo, entrerà nella classifica inglese direttamente al n. 5). E troppo matura non era neanche la critica, se si pensa che una delle guru dell'epoca, Julie Burchill, lo liquidò con uno sprezzante "non abbiamo bisogno di una versione country & western dei Velvet Underground". Il tempo, però, sarà galantuomo: Nme lo inserirà nella lista dei 100 migliori album di tutti i tempi e in tanti gli riconosceranno di aver precorso i tempi, sintetizzando tutta la scena "jangle pop" dei vari Prefab Sprout, Aztec Camera, Deacon Blue e compagnia. Non mancheranno anche gli omaggi di altri artisti, tra i quali i Manic Street Preachers, che lo annovereranno tra i loro dieci dischi preferiti di sempre, e Tori Amos, che realizzerà una cover di "Rattlesnakes".
Le ballate per cuori infranti di "Rattlesnakes" sono la colonna sonora di un'eterna adolescenza, che solo generazionalmente ha incrociato i figli degli Eighties, ma che chiama in causa tutti coloro che, almeno per una volta, hanno chiuso la porta al mondo e sognato ad occhi aperti nel buio della loro stanza. L'indie-pop da cameretta, forse, nasce anche qui.
26/10/2014