Tried to save myself
But my self keeps slipping away
Se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro. Chissà se Trent Reznor avrà pensato qualche volta alla celebre massima di Caio Giulio Cesare, nel corso di quei tormentati e gloriosi anni Novanta. Di sicuro, inconsapevolmente, ne ha fatto tesoro. Se non avesse preso per il bavero i propri demoni, trasformando l'autodistruzione in un processo artistico a dir poco esaltante, oggi probabilmente nemmeno ci ricorderemmo dei Nine Inch Nails. Le cose, come si sa, sono andate in modo diverso: Mr. Self-Destruct, come amava autodefinirsi, ha saputo mostrare le proprie fragilità, affrontarle faccia a faccia fino a trasformarle in un punto di forza, anzi in qualcosa di straordinariamente interessante, costruendo da quelle che potevano sembrare nient'altro che rovine un edificio splendente. Nei dieci anni che intercorrono tra i tre capolavori indiscussi della saga NIN, “Pretty Hate Machine” (1989), “The Downward Spiral” (1994) e “The Fragile” (1999), c'è – nel bene e nel male – tutto il Trent Reznor di cui abbiamo bisogno.
Ma all'epoca, va da sé, di tutto questo ne aveva bisogno lui in prima persona. L'abuso di alcol e di cocaina, i tentativi di disintossicazione, la depressione incombente, le scorribande dentro e fuori gli studi di registrazione spesso in compagnia di Marilyn Manson, il rapporto conflittuale tra l'interiorità e l'urgenza di esprimerla in musica, tra l'isolamento e la necessità di rivelarsi là fuori, in un bisogno di catarsi che in qualche modo diventa davvero redenzione personale: forse non c'è nulla di nuovo in tutto questo, se non – appunto – nell'esito musicale che ne scaturisce.
“The Downward Spiral” era come una bomba esplosa all'interno di una scena rock americana che proprio in quel momento si scopriva orfana del suo protagonista più amato e tormentato: Kurt Cobain. Nella sua indiscutibile grandezza, quell'album rimane ancora in qualche modo ancorato a una genealogia industrial a cui si ispira (Ministry in primis) cercando al contempo uno stile tutto nuovo. Un lavoro che si rifà dunque a una tradizione, la rimodella alla maniera moderna e riconoscibile di Reznor e la sputa fuori con inaudita violenza: la grandezza dei brani, la loro (auto)violenza implicita e in definitiva la portata epocale non si discutono.
Con “The Fragile” la questione appare più ampia e complessa. Reznor, ancora una volta, decide di fare tutto da solo (o quasi): si isola completamente nella fase di composizione, trovandosi a suo agio nella duplice veste di musicista-tuttofare e produttore, anche se quest'ultima incombenza verrà poi affidata, in fase di registrazione e post-produzione ai Nothing Studios di New Orleans (insieme a compagni d'avventura quali Adrian Belew, Dave Ogilvie, Charlie Clouser e Jerome Dillon), alle sapienti mani della formidabile coppia formata da Bob Ezrin e Alan Moulder. A quest'ultimo spetterà il compito di sbrogliare l'intricata matassa partorita da Reznor: ne usciranno ventitré brani che saranno poi divisi in un doppio album: left e right.
Rispetto a “The Downward Spiral”, il nuovo materiale si contraddistingue non solo per la cura ancora più meticolosa ed “esatta” del suono, ma anche per una maggiore alternanza tra canzoni irruente e capitoli più soffusi, con una distribuzione tutto sommato quasi egualitaria a livello percentuale e pertanto ancora più dissonante e disorientante, a dimostrazione del fatto che l'autore che si prepara a saltare dentro il nuovo millennio è cambiato – si è evoluto? - rispetto a quello viscerale e quasi fuori controllo che si era fatto conoscere a ogni latitudine, fino a diventare secondo il Time una delle personalità più influenti della sua epoca, di appena un lustro prima.
È probabile d'altronde che Trent Reznor avesse colto la potenzialità di un songwriting come quello che aveva portato alla nascita di “Hurt”: paradossalmente, in un disco che faceva degli assalti sonori e dello sfoggio dei muscoli la sua cifra stilistica, il successo più clamoroso, quantomeno a livello di “grande pubblico”, l'aveva raccolto la canzone più “fragile” e accorata del lotto, al punto da diventare un inno trans-generazionale (celebre è la versione cover realizzata da Johnny Cash) tuttora difficile da scalfire. In questo senso, “The Fragile” è un continuo saliscendi in balia dei vari stati d'animo che rimescolano l'umore di Reznor: rabbia, allucinazioni, momenti di calma, repentine e sfuggenti redenzioni popolano un disco nel quale per l'ascoltatore diventa semplicissimo immedesimarsi dal momento che i sentimenti del protagonista appartengono a ciascuno, sono universali.
C'è insomma un senso di empatia, verso se stesso e anche verso gli altri, in una parte comunque robusta di questo repertorio che non a caso passa continuamente dall'io al noi. Il punto non è più controllare la follia, ma veicolarla in forme differenti. Uno degli escamotage consiste nel ritornare al pianoforte, il primo strumento con il quale un Trent ancora bambino aveva preso dimestichezza, scoprendo già allora di avere grandi doti.
Certo, anche “The Fragile” è in gran parte un album elettrico ed elettronico, sferzato da ondate strumentali ruvide e scoscese, irruente e smodato, iper-moderno nel linguaggio così come nei suoni. Ma questo è, dicevamo, uno dei tanti lati della stessa medaglia. Un altro sgorga dai tasti. Sono capitoli sporadici ma ad ogni modo emblematici, sostanzialmente strumentali, talvolta erroneamente scambiabili per interludi nella trama, in cui pare di riconciliarsi con l'anima del progetto Nine Inch Nails: “The Frail” muove da una pace apparente a un crescendo di suspense propedeutico alla minacciosa “The Wretched”.
Un binomio che ricorda come “The Fragile” sia un qualcosa di simile a un concept-album sul frastuono interiore, in ogni caso uno di quei lavori in cui non esiste il tasto skip, se non a patto di snaturare l'impalcatura intima dell'opera e il patto stretto con l'artista. Il pianoforte è l'elemento portante anche di “La Mer”, forse in assoluto il brano che meglio racconta quanto si sia spinta lontano la ricerca sonora di Reznor, trasformandosi in qualcosa a mezza strada tra modern classical (compaiono violoncello e contrabbasso), pop e avanguardia.
Un'altra novità che ben racconta la complessità stilistica di “The Fragile” sono i movimenti che chiudono il lato sinistro e destro, “The Great Below” e “Ripe (With Decay)”. Pezzi rarefatti, sostanzialmente ambient, nei quali la poetica reznoriana poggia su scarni giri di chitarra – nei giri monocordi del brano conclusivo echeggiano gli Alice In Chains - per specchiarsi nuovamente nelle acque più placide dell'inconscio, imbracciando flebili moti di speranza (“I can still feel you/ even so far away”).
Per quel che riguarda invece il lato più irruento, quello più riconoscibile e forse ancora maggioritario in termini meramente quantitativi, si assiste perlopiù a un addomesticamento della violenza bestiale che caratterizzava “The Downward Spiral”. “Resistono” episodi in cui la furia torna a farsi cieca: il ritornello di “No, You Don't” e l'intera “Starfuckers, Inc.”, quest'ultima dedicata ai controversi rapporti con Manson e degna erede di una “March Of The Pigs”, ci ricordano di cosa è capace questa macchina schiacciasassi quando decide di non utilizzare il freno.
È tuttavia evidente che non sia questa la cifra stilistica attorno alla quale tutto deve ruotare. “The Fragile” si muove su meccanismi più sfumati, su strutture – appunto – più fragili e per questo preziose. Spazia dai rigurgiti industrial, subito palesi in “Somewhat Damaged” con il suo incedere meccanizzato, e si perde nei marosi elettrici di una straordinaria “The Day The World Went Away”. È capace di produrre grandi vette di lirismo (“We're In This Together”, dedicata al tema della dipendenza “da tutto, dipendenza dalle cose e dalle persone”) e di inscenare piccole-grandi orchestrazioni rumoriste (la straordinaria “Just Like You Imagined”, accompagnata dai virtuosismi chitarristici di Adrian Belew, una specie di industrial-pop per nuove generazioni perdute), fino a disperdersi nelle atmosfere spettrali di “Even Deeper” e infine negli incubi distopici di “Pilgrimage”.
In questo viaggio al centro delle proprie tenebre, Reznor cerca nella seconda parte dell'album se non una via d'uscita, quantomeno una ipotetica redenzione. Il titolo di “The Way Out Is Through” che apre il sipario è emblematico di questa volontà di ricerca, destinata programmaticamente a rimanere a metà. L'impiego di ritmiche quasi-funk nelle vari “Into The Void”, “Where Is Everybody?” e “The Mark Has Been Made”, sebbene mezzo nascoste sotto la consueta corazza industrial, introduce un tema finora poco sfruttato, quello del midtempo (già in precedenza sfruttato a dovere in “Closer”), destinato comunque a infrangersi contro nuove e crescenti fratture: “Please”, “Starfuckers, Inc.”.
Alle visioni caleidoscopiche e sintetiche di “Complication” e al rumorismo post-moderno di “Underneath It All” segue il finale spoglio e tuttavia scenografico di “Ripe (With Decay)” che conclude questo nuovo giro all'inferno sulla soglia di un ipotetico purgatorio. Laddove tutto si è disfatto, non resta che ricostruire, di nuovo, daccapo: ogni fine è un nuovo inizio, e viceversa.
And for once in my life I feel complete
And I still want to ruin it
Do you know how far this has gone?
Just how damaged have I become?
04/09/2022