L'ascesa di Smog, aka Bill Callahan, è coincisa con l'esplosione del "lo-fi", il movimento americano che privilegia suoni sporchi e bassa fedeltà (Pavement, Beck, Sebadoh e compagnia). Ma sarebbe riduttivo confinare l'opera di questo atipico songwriter nel nucleo effimero delle "tendenze" rock. Il suo canzoniere, infatti, possiede quel sapore d'immortalità proprio di classici come Nick Drake, Lou Reed, Leonard Cohen, Neil Young e Nick Cave. E' un collage di miniature sonore pervase da uno spleen malinconico, che ne rivelano l’umore perennemente depresso e solitario. Per certi versi, Smog è proprio il Drake degli anni Novanta, soprattutto per la capacità di trasferire sul pentagramma un disagio esistenziale tanto emozionante quanto sobrio e misurato.
"Wild Love" esce nel 1995, dopo che lo stile-Smog si è già delineato nei precedenti "Sewn To The Sky" e (soprattutto) "Julius Cesar". Forte di un contratto con la Drag City (una delle più importanti etichette indipendenti degli Stati Uniti) e dell'appoggio di un guru della scena "indie" come Jim O'Rourke, Callahan perfeziona la sua formula in dodici tracce che compongono un acquerello minimalista dal fascino decadente. Ambientazioni austere si alternano a variazioni di ritmo, contrappunti, figure nervose di chitarra e litanie spettrali. Il rock grezzo e "lo-fi" degli esordi si è saldato con un peculiare gusto per l'orchestrazione, dando vita a uno spettro sonoro ampio ed eccentrico. Il violoncello (suonato da O'Rourke) e le tastiere, in particolare, aggiungono un tocco sinistro ai pannelli di desolazione quotidiana di Smog, in un'ipnotica commistione di musica da camera e indie rock.
L'ouverture è subito un tuffo al cuore: la palpitante "Bathysphere" si regge su un ritmo cupo e su un vibrato di chitarra nevrotico, in bilico tra "Marquee Moon" dei Television e "One Hundred Years" dei Cure. Il testo è uno dei tipici soliloqui disperati di Smog, con il protagonista che sogna di vivere in una campana subacquea nei fondali dell'Oceano, tra anguille e pescespada argentati, isolato dal mondo; ma "non può nuotare" e il padre ne ucciderà il sogno ("when I was seven/my father said to me you can't swim/and I never dreamed of the sea again"). E' quasi una parabola dell'agorafobia che affligge Callahan, della sua incapacità di rapportarsi con un mondo del quale non si sente parte. Sorretto da una ritmica ossessiva, incessante, Smog declama il suo doloroso "vorrei ma non posso" in un clima sfibrante, alimentato dai cori e dalle chitarre.
L'intensità non viene meno negli 80 secondi di "Wild Love", breve interludio pervaso da una sobria melodia di violoncello sulle cui note Smog intona il suo atto di dolore: "Wild love/ somebody shot down my wild love", mentre gli archi tratteggiano una seconda melodia, accompagnata da eterei tintinnii di campanelli. Il clima si fa ancor più sinistro nella successiva "Sweet Smog Children", con un carillon straniante, figure minimaliste di tastiera e lievi rumori in sottofondo; accompagnamento ideale per liriche tra le più dolenti e trasognate dell'album ("Sweet Smog children/ I just want to touch you/ like the invisible man/ to be untouchable/ like only a child can"). Sempre più perso nel vuoto del suo "mal di vivere", Smog eleva al cielo l'inno solenne di "The Emperor" con la solitaria fierezza di un eremita, distante ormai anni luce dagli affanni terreni.
Se bastano tre semplici accordi di piano a dar corpo alla melodia di "Limited Capacity", con l'inquietante "It's Rough", Callahan dimostra anche di saper costruire arrangiamenti complessi, mescolando con eleganza i droni funerei di una sezione d'archi, l'intrico di tre chitarre che dialogano tra loro e l'energia di una drum machine. L'anemico cantore della tristezza riesce a riprendere vigore, per un attimo, nel rockabilly nevrotico di "Sleepy Joe", dove il "sonno" è quello di una cavia per un esperimento di ibernazione. Ma a riportare nuovamente l'ascoltatore sul sentiero oscuro della malinconia provvedono due ballate doc come la fragile "The Candle", accompagnata da flebili chitarre e ronzii di tastiere, e la fatalista "Be Hit", intrisa di humour amaramente sardonico ("Every girl I've ever loved has wanted to be hit/ and every girl I've ever loved has left me because I wouldn't do it...").
E' il preludio al capolavoro del disco: l'apoteosi orchestrale di "Prince Alone in the Studio", saggio sublime delle capacità compositive di Smog al crocevia tra pop, rock e musica da camera. Il clima è maestosamente decadente, con gli archi melodrammatici ad avvolgere in spire sinuose le chitarre, sempre tirate all'eccesso, in un lungo crescendo sinfonico, reso ancor più febbrile dalla pomposità delle percussioni. Sonorità drammatiche, dunque, cui fa da contraltare un testo ironicamente "nonsense", in cui Prince (proprio il musicista di Minneapolis…) preferisce una session solitaria di chitarra alla compagnia delle ragazze che vogliono fare sesso con lui ("it's four a.m./ and he finally gets that guitar track right/ and it's better than anything any girl could ever give him/ because Prince is alone"). L'album si conclude sulle note della filastrocca di "Goldfish Bowl", con un arrangiamento serrato a far da contrappunto a una esile cartilagine melodica.
Maestro di atmosfere spettrali e funeree, cantore della solitudine e del disincanto, Smog cesella con "Wild Love" uno dei gioielli nascosti più luccicanti degli anni Novanta, dimostrando come nel rock, anche con un budget esiguo, si possano comporre partiture complesse e suggestive.
09/11/2006