L’atto della comunicazione, nella definizione classica, sottintende l’elaborazione di un determinato insieme di informazioni da parte di uno o più individui e la successiva condivisione con uno o più destinatari. Spostando il problema in campo musicale (popolare e non) l’obiettivo è sempre stato, con le dovute eccezioni, quello di rendere quanto più fruibile possibile alle orecchie del pubblico un messaggio debitamente codificato e, in quanto tale, riproducibile. Ma cosa succede se il codice di comunicazione è intrascrivibile, irriproducibile e ostico fino all’eccesso – cosa che non riguarda neppure i celebri quattro minuti e trentatré di John Cage, tanto per citare una provocazione famosa – e le entità che lo emettono rinunciano deliberatamente a condividerne uno tra loro?
Una delle possibili risposte a questa domanda richiede un passo indietro di una ventina d’anni e un salto a nord di altrettanti paralleli. Rune Kristoffersen, già membro dei Fra Lippo Lippi – gruppo norvegese capace di vergare un paio di lavori degni di nota, in un ambito non certo povero di concorrenza come la new wave anni Ottanta – smette i panni del bassista per impelagarsi in un’operazione di mecenatismo musicale abbastanza spinto. Fonda, in quel di Oslo, un’etichetta discografica dal nome per metà autoreferenziale, per metà altisonante – la Rune Grammofon – fissando poche e semplici regole stilistiche: apertura a tutti i generi musicali, artwork affidati al poliedrico Kim Hiorthøy e, soprattutto, niente contenitori di plastica, solo digipack, a beneficio degli indefessi feticisti del collezionismo di supporti fisici.
Cosa c’è di spinto, direte voi, in tutto ciò? È presto detto. La prima uscita in senso assoluto viene riservata al triplo salto mortale in campo discografico di un’oscura e sconosciuta sigla di orientamento “deathjazzambientavantrock”, giusto per citare direttamente la scarna nota stampa, declinando ogni responsabilità sull’etichettatura. Non senza difficoltà, siamo in grado di risalire ai membri del quartetto: il trombettista Arve Henriksen, il tastierista Ståle Storløkken e il batterista Jarle Vespestad – già attivi nei sofisticati ambienti jazz nordeuropei sotto l’insegna Veslefrekk – coadiuvati alla produzione e agli “audiovirus” (qualunque cosa voglia dire) da Helge Sten, meglio noto col moniker Deathprod, già in orbita Motorpsycho.
Chiarite le identità, le pochissime concessioni alla stampa ci impongono di avventurarci nel campo delle leggende metropolitane. Pare, innanzitutto, che il nome Supersilent sia stato scelto osservando un adesivo posto sul retro di un autoarticolato molto promettente in materia di insonorizzazione. Niente di particolarmente stravagante, se l’oggetto sociale non prevedesse la vendita di suoni. Passando alle questioni di sostanza: il gruppo, se così possiamo definirlo, non parla di musica, non si esercita in sala prove, non scrive partiture o arrangiamenti a tavolino, né tantomeno manipola nastri in fase di post-produzione. Processo creativo ed esecuzione si sovrappongono fino a coincidere indissolubilmente.
Cristallizzato in fase di registrazione, il materiale viene accuratamente catalogato con un banale sistema numerico sequenziale e dato in pasto all’ascoltatore così com’è, nudo e crudo. Niente titoli, niente testi, niente riferimenti culturali che possano coadiuvare l’ascoltatore, stuzzicando altre aree del cervello che non siano quelle adibite alla mera funzione uditiva. Persino il già citato Hiorthøy ci mette del suo, con una copertina piuttosto algida e, neanche a dirlo, minimalista (mentre l’artwork della ristampa di qualche anno dopo si rivelerà un cliché tipografico da aggiornare, di album in album, solo cromaticamente e nel codice a barre).
Le premesse, converrete, non sono certo quelle ideali per provare ad abbattere qualche record di vendita. Non che l’ascolto faciliti in qualche modo le cose: preceduto da un breve preambolo tribale, Deathprod decide di mettere i pallini sulle å fin dalla prima traccia, chiarendo empiricamente la definizione di “audiovirus”. Ne nasce una battaglia sonora di ben mezz’ora (sulle oltre tre totali) per R2-D2, camminatori AT-AT, caccia interstellari e Chewbacca solista (che declama le istruzioni di imprecisate strumentazioni elettroniche), con le varie fazioni a sfidarsi e inseguirsi sui due canali stereofonici. Il ritmo è eufemisticamente variabile, guai a provare a individuare un pattern in qualche modo ragionato.
Le percussioni cominciano a seguire un ordine approssimativo a partire dalla seconda traccia, considerevolmente più breve ed elettricamente meno disturbata. La tensione risale repentinamente in “1.3”, pezzo pazzesco in cui volano qua e là stracci di almeno tre decenni di elettronica fagocitata e rigurgitata, mentre Vespestad mostra i muscoli in un vero e proprio esercizio di virtuosismo fisico. Nella traccia successiva, tra tastiere spettrali e una batteria che suona come il crepitio di roghi di macerie cosmiche in fase di spegnimento, Henriksen prova a dare alla sua tromba un’aria pseudo-convenzionale – abbiamo addirittura una sorta di motivo. Cala così il sipario sul primo atto: c’è da rimanere colpiti, non solo in senso figurato.
Il primo pezzo del secondo supporto ripropone, pressoché inalterate, le atmosfere di “1.4”, fino alla scossa del nono minuto, una progressione elettronica in pieno stile Tangerine Dream. Deathprod riprende con lo scimmiottamento di personaggi robotici di Guerre Stellari in “2.2”, mentre in “2.3” sembra che l’intera band abbia deciso di trasferire armi e bagagli in una betoniera. “2.4”, introdotto da rintocchi asincroni di campane tibetane crepate, si evolve nel rullaggio e successivo decollo di un elicottero a propulsione nucleare. “2.5”, soprattutto grazie all’ennesimo e indovinato cambio di registro del batterista, suona come la colonna sonora di un inseguimento di mezz’ora, tratto da un poliziesco ambientato in un futuro distopico, brutto, sporco e cattivo.
Per essere arrivati al terzo disco, è bene chiarirlo, non è previsto alcun premio. L’unica concessione, quasi una forma di consolazione per l’ascoltatore, è la netta rarefazione delle atmosfere. “3.1” è decisamente la traccia più ambient del lotto: batteria e tastiere sembrano provenire da un altro studio di registrazione, mentre la tromba, priva di ogni filtro, suona carica di malinconia. In “3.2” un defibrillatore sovralimentato prova, a intervalli regolari, a far rianimare un battito quantomai flebile e scompensato. Nei venticinque minuti di “3.3” sembra di perlustrare le rovine di una civiltà fantasma, rasa pressoché al suolo dalle battaglie precedenti. Qualche forma di vita artificiale esala gli ultimi respiri, tra cumuli di ferraglie e rottami, mentre un falsetto androide lancia un disperato richiamo dall’aldilà dei replicanti.
Una pulsazione elettrica in lieve crescendo inaugura “3.4”, la traccia finale. Sinistre interferenze sintetiche minacciano una nuova imponente deflagrazione – il che non sorprenderebbe di certo, giunti a questo punto. Tutto si fa invece etereo e impalpabile, mentre Henriksen soffia dentro al proprio ottone le ultime note di commiato, prima di una dissolvenza finale che lascia l’aria carica di interrogativi su un’esperienza che, comunque la si voglia catalogare, non è comparabile a qualsiasi altra forma di ascolto tradizionale.
Col senno di poi – che, per quanto ci riguarda non ha fatto altro che confermare e rafforzare gli entusiasmi della primissima ora – possiamo provare a rispondere almeno a una parte di queste domande. “Supersilent 1-3” non è solo l’inizio di una sfolgorante carriera, di cui celebriamo quest’anno il ventennale. Non è solo il primo numero d’archivio di un catalogo che rappresenta, di fatto, una guida al frastuono meno atroce di fattura norvegese dei primi lustri del nuovo millennio. E che, favorito dalla distribuzione della celebre Ecm (sempre sia lodata), è riuscito a varcare – e di parecchio – i confini scandinavi. Non è solo la conferma che una nuova e diversa forma di virtuosismo strumentale è possibile.
È un'opera traboccante di idee, nel cui caos più o meno organizzato trovano compimento ambizioni di portata direttamente proporzionale a lunghezza e complessità: tra le tante, spicca l’aver creato, letteralmente dal nulla, un piano concettuale avendo programmaticamente escluso ogni forma di concettualità dal processo creativo. Un’opera che, pur rappresentando un’iper-evoluzione di diversi generi musicali, non si può certo definire un punto di arrivo, avendo indicato la strada a un’intera nuova generazione di avanguardisti.
25/11/2018