No change, I can change
I can change, I can change
But I'm here in my mould
I am here in my mould
Poco importa che nel 1997 il non genere degli anni 90 per eccellenza fosse al suo crepuscolo: se dovessi spiegare a un neofita cos’è il britpop, aprirei il Tubo e cliccherei su quel video là, possibilmente rippato dalla televisione, con il bollo di Mtv in bella vista (tanto per corroborare ulteriormente l’effetto nostalgia, incorniciando quegli anni in un altro glorioso simbolo). Perché il britpop è la traiettoria dritta di Richard Ashcroft che prende a spallate i passanti su Hoxton Street, la sua giacca di pelle e l’espressione corrucciata da figlio di puttana e della working class (padre rinchiuso in un ufficio, madre parrucchiera). Il sample d’archi pagato caro agli Stones, perché se voglio una cosa me la prendo, non importa a che prezzo (in questo caso carissimo, pagato per oltre vent’anni di controversie e royalties). La rotazione imperterrita, quasi ossessiva di “Bitter Sweet Symphony” sulle emittenti musicali in voga quegli anni, i suoi dati di vendita schifosamente esorbitanti (“Urban Hymns” ha superato i dieci milioni di copie nel mondo, mentre in Gran Bretagna è fra i venti dischi più venduti di sempre).
Di “Urban Hymns”, “Bitter Sweet Symphony” è però soltanto l’imponente portone d’ingresso in stile vittoriano. L’elegante, sfarzosa bocca di un buco nero che ingoia decine di sottogeneri e declinazioni del brit-rock, dà loro una riverniciata sgargiante per poi risputare fuori il britpop in una delle sue versioni più spaccone e gagliarde. Non a caso una delle ultime. Ci sono dentro lasciti shoegaze, del quale i Verve prima della tramortente trasformazione erano timidi ma illuminati interpreti, il movimento mod, gli Stones ma soprattutto gli Who, un po’ di Madchester: il risultato è però un blend unico e multiforme, aitante e magnetico, sentimentale e seducente. Non avrebbe fatto proseliti, perché il pop e il rock che contano avrebbero seguito di lì in poi la via tracciata da altri maestri (i Radiohead, ad esempio, che lo stesso anno avrebbero indicato nuove, cibernetiche ed esistenzialiste coordinate), ma sarebbe stato destinato al ricordo imperituro, erto (insieme ad altri tre o quattro dischi) a efficace simbolo di un intero, ricchissimo movimento.
“Urban Hymns” è un disco che, almeno al suo inizio, va al massimo. Così che, subito dopo la grandiosa sinfonia agrodolce troviamo "Sonnet", un’altra hit formidabile che con smargiasseria, tra una smorfia da Dio e l’altra, portò su tutte le stazioni radio di quegli anni sofisticati motivi di soul orchestrale e finiture chitarristiche leggere come rugiada.
Nemmeno il tempo di sintonizzarsi su frequenze pop che il quintetto di Wigan (Greater Manchester), pur non rinunciando a un grammo di coolness, ingarbuglia la faccenda con il primo dei due pezzi più sperimentali del lotto. “The Rolling People”: acido puro, che si diffonde guizzando al ritmo di un basso krauto (Simon Jones ha imparato la lezione dei Can a memoria), sfociando ora in singalong metallici dal sapore Madchester, ora in schitarrate sporcate da scorie alt-blues. Si finisce con Ashcroft in versione sciamano che non riesce più a scandire le parole e si esprime in farfugli e altri vocalizzi lisergici in mezzo a mille deliqui chitarristici.
L’altro viaggio indimenticabile è “Catching The Butterfly”. Sei minuti e mezzo che smaterializzano tutto, privando l’ascoltatore di punti di riferimento. Suoni inafferrabili, in cui i vortici di chitarra di Simon Tong e Nick McCabe, mai domi, rievocano sinistramente il passato shoegaze della band (entrambi i due dischi precedenti dei Verve serbano gemme che rientrerebbero in ogni antologia del genere), esaltandone il lato più distorto e fragoroso oltre che i sentori più deviati e psichedelici.
La grandezza delle parti di chitarra di queste due canzoni risiede proprio nella combinazione degli stili di Tong, più pop e nitido, e McCabe, più strisciante e devoto alla psychedelia. Un’alchimia che quasi quasi ci perdevamo, poiché dopo l’uscita di “A Northern Soul”, McCabe aveva lasciato la band per venire sostituito proprio da Tong (scelto comunque dopo il Suede Bernard Butler, che però durò nella difficile band giusto un paio di giorni). Soltanto l’insistenza di Richard Ashcroft, convinto di non poter realizzare il suono che aveva in mente senza l’apporto di McCabe, portò il chitarrista a riconsiderare la scelta e completare dunque l’impareggiabile formazione a cinque.
“Neon Wilderness” è quasi una coda naturale di “Catching The Butterfly”, con la voce di Ashcroft e le rullate lente di Peter Salisbury che si trascinano impantanate nelle scie lasciate dai chitarristi. E’ un altro momento rarefatto e sperimentale che rimarca quanto, checché se ne pensi, “Urban Hymns” sia tutt’altro che un semplice disco pop e che il passato alternative della band non fosse sopito.
In mezzo a “The Rolling People” e “Catching The Butterfly”, quasi a stemperarne la furia, troviamo il pezzo più commovente mai scritto da Richard Ashcroft: “The Drugs Don’t Work” (primo numero 1 in classifica dei singoli per la band). Una ballad liquidissima e sconsolata, con un testo bifronte, che mescola e confonde due livelli di lettura. Nel primo troviamo Ashcroft ammettere la dipendenza dalle droghe, nel secondo il cantante confida lo sconforto provato durante la terribile agonia ospedaliera del padre. In entrambi i casi le droghe, le medicine non funzionano. Funzionano invece benissimo la melodia e la malinconia di quella che è una delle ballate più amate e trasmesse del britpop tutto.
Altrettanto celebre, ma diametralmente opposta in termini d’umore è "Lucky Man", che parte come una dimessa piece di folk psichedelico per poi aprirsi come un ventaglio in uno dei ritornelli più abbaglianti della storia del pop made in Uk, oltre che in rigogliose fioriture di violini e chitarre: un’esplosione di sole, una pioggia torrenziale di energie positive, una vivaldiana primavera dell’anima: "Happiness/ Something in my own place/ I'm stood here naked/ Smile and I feel no disgrace/ With who I am".
La delicatezza acustica di questo brano, chiara discendente di Nick Drake, torna in numerosi altri episodi (nella languidissima "One Day" su tutti) che fanno da intervallo ai vari pezzi da novanta. Tra questi è rimasta da citare la robusta - grazie alle chitarre ruvide e alla marcata punteggiatura del pianoforte - “Space And Time”. Una canzone che offre l’ennesima testimonianza dello stato di grazia della scrittura di Ashcroft, capace a quel punto della sua carriera di scrivere grandi ballate come un fornaio sforna rosette di pane al mattino. A confrontare le sue ultime cose con i brani di questo periodo d’oro, si prova sincero imbarazzo.
Il finale affidato a “Come On” torna ad alzare il volume delle chitarre che si producono in wah wah e assoli fulminei durante un trionfo sboccato di fuck you, gridati o biascicati da Ashcroft mentre si contorce e sbatte come un ibrido tarantolato di Mick Jagger e Bobby Gillespie; mentre la hidden track “Deep Freeze” è un fugace ritorno ai cristalli e alle luci fioche della caverna sulla copertina dell’esordio “A Storm In Heaven”.
La forte discontinuità dei toni (oltre che dei generi) delle canzoni di "Urban Hymns", ora magniloquenti e spacconi, ora timidi e introspettivi, lo rende un oggetto musicale oltre che semplicemente grandioso, ambiguo e suadente, capace di pungolare la curiosità dell’ascoltatore e portarlo a ricercare tra le sue trame nuovi livelli di lettura ad ogni ascolto. Un effetto che siamo abituati ad aspettarci da band più sperimentali o da cantautori scafati, non certo dai dominatori delle classifiche di mezzo mondo, perlomeno non negli anni 90. Ecco, ancora una volta, i Verve tornano efficace metafora di un intero filone, in cui spesso pailettes e colori accecanti nascondevano significati e sofferenze più profondi di quelli celati dietro gli strappi dei jeans e le camicie di flanella del grunge.
Già vicini allo scioglimento nel post-“A Northern Soul” (che difatti, sebbene furtivo, ci fu), i Verve si dismisero nel 1998, nel mezzo di un tour trionfale in supporto al disco che aveva permesso loro di conquistare il mondo, avvicinandoli per fama e numeri agli amici Oasis – Ashcroft e i Gallagher si sono dedicati a vicenda dischi (“A Northern Soul”) e canzoni (“Cast No Shadow”).
In seguito a numerose tensioni, dopo una data live a Düsseldorf, Richard e Nick arrivarono alle mani; quest’ultimo rimediò una mano rotta e la ferma volontà di lasciare la band per sempre, non più disposto irrevocabilmente a sopportare le tensioni e le pressioni derivanti da una vita da rockstar. La band provò a terminare il tour scritturando un turnista (B.J. Cole) per suonare le parti di chitarra di McCabe, ma finì col disgregarsi l’agosto di quell’anno dopo un fallace concerto in Irlanda.
'Cause it's a bitter sweet symphony that's life
19/01/2020