Oggi è troppo presto per poter apprezzare questi compositori, e non perché siano all’avanguardia; al contrario, sono artisti perfettamente allineati con la nostra epoca e che esprimono veramente il nostro tempo. Ma le prevenzioni a cui è soggetta la cosiddetta musica leggera, e la sopravvalutazione dei compositori del passato, con la conseguente sottovalutazione di quelli del presente, sono questioni che in ogni secolo si sono ripresentate alla stessa maniera
(“Tecnica mista su tappeto”, Franco Battiato, Franco Pulcini, EDT, 1992)
Cos’è il presente, ormai, se non un feed senza soluzione di continuità di istantanee e idee dal passato che impedisce una seria disamina dell’oggi e, al contempo, di immaginare un domani di rottura.
È di queste settimane l’ennesima, triste polemica a uso e consumo dei social network tra Manuel Agnelli e Marco “Morgan” Castoldi intorno a X-Factor e a chi, tra i due, sarebbe stato il più innovativo fra i giudici di quella disgraziata trasmissione televisiva. Se vi sembra la cosa ridicola che in effetti è, sappiate che non c’è modo di fuggire da questo centro che si è mangiato i bordi: per la quasi totalità di ascoltatori e addetti ai lavori, oggi, la musica è un prendere una posizione pubblica su questi temi, mascherandola da parere strutturato su percorsi artistici e album - concetti del tutto novecenteschi, inadatti a raccontare lo spirito del nostro tempo. A questa tendenza globale si somma poi quella locale di un paese in cui i musicisti underground della Generazione X non sono riusciti a creare, per mancanza di visione, strumenti o interesse, un’alternativa praticabile al mainstream - ne parlava con ovvia cognizione di causa Umberto Palazzo, qualche anno fa, scrivendo del Festival di Sanremo, peraltro ormai indistinguibile dal Concerto del Primo Maggio o da un qualsiasi talent.
Peccato, però.
C’è stato un tempo, l’ultimo prima dell’Internet di massa, in cui personalità flamboyant come quelle di Agnelli e Castoldi sembravano capaci di trasformare in oro tutto ciò che toccassero: il primo, per l’abilità nel tradurre nella nostra lingua e in slogan brucianti l’immaginario sonico dell’alt-rock nordamericano; il secondo, per l’ampiezza di vedute e dei modelli non solo musicali da cui sapeva attingere per creare - con i suoi Bluvertigo prima, e poi per un po’ anche da solo - un mondo di riferimenti colti che comunicava con straordinaria facilità. Di più: simili talenti non sembravano soltanto preannunciare fulgide carriere per sé, ma pure una promessa di liberazione dal nostro tragico nazionalpopolare. Non è andata così: quell’epoca d’oro è finita in fretta, da allora sono passati due decenni buoni e alcuni dei suoi protagonisti sono a propria volta diventati noti al grande pubblico per ragioni del tutto indipendenti dalla produzione musicale. Sono rimaste però opere indimenticabili, che è ora di togliere alla mitologia senza illudersi che siano ancora zeitgeist: “Metallo non metallo” dei Bluvertigo, per dirne una, è un classico assoluto che non merita approcci tranchant che si concentrino sul declino di chi lo ha scritto.
Capitolo di mezzo della “Trilogia Chimica” aperta due anni prima con “Acidi e basi” e archiviata entro la fine del millennio - insieme all’intera discografia di studio - con “Zero”, “Metallo non metallo” esce nel 1997 ed è l’apice commerciale e creativo della band. Un quartetto di venticinquenni - Morgan (voce, basso, pianoforte, tastiera, sintetizzatore), Andy (co-fondatore, tastiera, sintetizzatore, sax, voce, cori), Sergio Carnevale (batteria), Livio Magnini (chitarra, in addizione/sostituzione di Marco Pancaldi) - che raggiunge al secondo tentativo la piena maturità compositiva ed esecutiva: è in queste quindici tracce che la formula-Bluvertigo trova la quadra, passando dall’assalto elettrico nevrotico e sensuale ma tutto sommato ancora tradizionale dell’esordio a quella che, infinitamente banalizzando, potremmo definire una rielaborazione nineties e giocosamente intellettualizzata di stilemi Battiato/Bowie/Gore. Ma c’è un mondo fluorescente che brulica in questi settanta minuti, scaletta fluviale che non poteva che nascere nell’età dell’oro del compact disc; compone e arrangia praticamente tutto Morgan, leader dal carisma pari solo all’instabilità.
“Il mio malditesta” apre in continuità apparente con il recente passato. La progressione di accordi dell’attacco - da Seattle ripulita - ritorna in un chorus di cantabilità inconsueta, ma già la strofa scende giù per un gorgo di sincopi ritmiche e basso funk - e, aggiungo, grottesche sparate da Liceo Classico mal digerito: “Però Giove ha cagato fuori Minerva da un’emicrania”. Segue “Fuori dal tempo”, singolo d’irripetibile successo in un decennio in cui ancora il mercato non aveva i mezzi per occupare tutti gli spazi dell’immaginabile, né forse sognava di poterlo fare. Ugualmente godibile e spiazzante sia per il pubblico alternative che per quello medio-pomeridiano di Mtv - per via del fare ironico, dei balletti e dei colori sgargianti del videoclip e delle chitarre trattate che reggono un electro-pop dissonante - “Fuori dal tempo” è un ghigno sarcastico che scopre soddisfatto i denti alla norma (“Non posso esternare i pensieri strani/ non posso detestare liberamente/ anche se a volte avrei buone ragioni”); menzione d’onore per il balletto d’archi diretto da Lucio Fabbri, ultima stranezza di sei minuti da antologia.
Sbalzi d’umore imprendibili: “Vertigoblu” è funk rumorista, chitarre di scuola Belew/Fripp con liriche che srotolano le ossessioni ricorrenti dell’autore - la scuola e i suoi programmi ministeriali tristi e inadeguati; le città affollate di gente standardizzata; pure uno sputo di bile punk, giusto una decina di secondi, a certi colleghi artisti che fanno della sincerità una bandiera, come se quella fosse una scusa sufficiente a redimere un’Arte insufficiente. “Cieli neri” è invece delicata psichedelia che si può fregiare di un’interpretazione di gran fascino e di un ritornello intriso di romanticismo nero - difficile trovare, nel nostro rock, un racconto di una fine altrettanto lirico: “Ho i ricordi chiusi in te/ la tristezza dentro me/ tra due mani, le mie/ sono i cieli neri che, io so/ non si scioglieranno più”.
Troppa grazia tutta insieme, questo quartetto di brani, ed è fisiologico che l’asticella si abbassi per i pezzi successivi, da “Oggi hai parlato troppo” - funk caricato hard, un crossover quasi canonico per l’epoca, non fosse per un testo ancora provocatorio by design - a “Il nucleo” - che vanta l’enfasi e la qualità melodica di “Zero”, ma non ancora quella produzione illuminante e anticipatrice che farà suonare ogni strumento come una sequenza di 0 e 1, sorta di pop scritto ed esposto in linguaggio macchina.
“Ebbrezza totale” è una gemma ingiustamente sottovalutata, ballata pop dalla grandeur melodica di nuovo da Bowie berlinese filtrata con lenti “Zooropa”. A guardarla, la disegneresti come una gaussiana: intro e outro per soli piano e interferenze; la prima e l’ultima sezione tra una chitarra limpida e una lasciata in feedback; la parte centrale in distorsione, senza che si arrivi mai a un vero e proprio chorus. È l’antipasto perfetto all’altro vertice pop di “Metallo non metallo”, martellante ossessione Depeche con il valore aggiunto del bouzuki di Mauro Pagani e, nel refrain, di una chitarra disco: “Altre forme di vita” e il suo testo mandato a memoria da un paio di generazioni di ascoltatori ripropongono, in scala, l’incantesimo che il Franco Battiato de “La voce del padrone” aveva gettato su intere riviere di italiani in costume, abbronzante e Fininvest un decennio e mezzo prima.
Naturale che, raggiunte simili altezze, di un funk con meno mordente (“(Le arti dei) miscugli”) e di una tirata rock’n’roll per converso sfrenata (“So Low - L’eremita”) si possa pure fare a meno, ma le meraviglie non sono finite.
Ecco dunque “Ideaplatonica”, electro-acustica - con tanto di dramma finale piano-driven quasi improvvisato - che anticipa e supera i dEUS di “The Ideal Crash”, che da queste parti arriveranno almeno un anno dopo; sono però le liriche a marcare ancora la distanza tra Castoldi e i suoi contemporanei. Pensate alle affettazioni del Godano giovane, provate a riascoltarle oggi e poi a metterle vicine a un testo come questo; là troverete una messinscena sentita ma precisamente databile, qui un’emozione palpabile e indifferente al tempo e scelte lessicali volutamente disarticolate (“oltremodo”, “decisamente”) mischiate a squarci di realismo grafico - “anche per quest’anno rinuncio al suicidio” è una lama che arriva dal niente, gela il sangue e nel niente ritorna.
Ed ecco, infine, “Troppe emozioni”, processione di gesti minimi e poderosi, gemella della “Punto di non arrivo” che chiuderà “Zero”: un miraggio in un freddo deserto grigio-pietra, come l’anelito impossibile all’impassibilità cantata nel testo (“Chi ha subito un danno è pericoloso/ sopporta tutto/ troppe emozioni rendono insensibili”). Il basso è imponente, il giro di chitarra ipnotico, Alice - ennesima ospite di vaglia che si accontenta di una presenza discreta, come certi attori di grido tagliati a poche battute nei film di Malick - accompagna senza parole la profondità abissale delle linee vocali di Morgan e Andy.
Tutta la tecnologia degli anni Novanta con i lustrini degli anni Ottanta e l’ambizione degli anni Settanta, “Metallo non metallo” è l’album che afferma la parabola dei Bluvertigo come la più interessante e innovativa del finire del millennio, quantomeno nell’ambito di riferimento - quello di un’idea di pop accessibile e colorato, ma dettagliatissimo, stimolante, senza confini. Soprattutto, è il lavoro che qualifica Morgan come il maggiore talento della sua generazione - “un vero affabulatore, una personalità da palcoscenico perfettamente in grado di invogliare lo spettatore ad avvicinarsi a nuovi mondi, i suoi mondi”, scrive ottimamente Giulia Cavaliere - ancora in grado, giunto a un plateau d’ispirazione, di regalare altri due classici di livello paragonabile: il mai troppo rivalutato “Zero” e, finalmente in proprio, il mondo lussureggiante di “Canzoni dell’appartamento”, ormai maggiorenne ma a tutt’oggi capace di sbigottire gli sguardi e spalancare le bocche di chi, come i vecchietti del paesello calabrese radunati attorno a un televisore B/N ne “Il buco” di Michelangelo Frammartino, si trovi ad assistere al fiorire della Milano del miracolo economico - una differita di quarant’anni, sì, ma in tutto viva e toccante.
Poi, lentamente, sortite via via più dimenticabili, fino all’attuale deriva memetica di cui si diceva al principio, peraltro in ottima compagnia. Ma è quello che capita pure al talento più puro, se lasciato deragliare: succede, è successo, si sgretola e via.
La storiella che le strade sono fatte per portare da qualche parte è solo un trucco per ammaliare gli esseri umani con l’idea di progresso. Le strade sono fatte per perdersi e io, come ho detto, credo nel caos: credo profondamente nel suo potenziale creativo, ma ogni volta che non fai una scelta, la situazione diventa più ingestibile, in modo esponenziale. Finché la faccenda degenera, e tu ti trovi di fronte a un’unica massa urlante di possibilità aggrovigliate indistricabilmente l’una all’altra, una massa che ti sovrasta e rischia di inghiottirti. E io, per quanto possa illudermi nei momenti di autoesaltazione, non sono Dio, cioè non sono Bach.
(“Il libro di Morgan. Io, l'amore, la musica, gli stronzi e Dio”, Marco Castoldi, Einaudi, 2014)
(Alcuni concetti sono ripresi da un articolo dell’autore per SALT Editions, che si ringrazia per la gentile concessione)
03/10/2021