Una ragazza venuta dal nulla, dall’aria inquieta ma anche inquietante, sguardo fisso nel vuoto, spento e indecifrabile. Tagli di capelli di colori sempre di diversi. Costumi giovanili ma anche enigmatici e messe in scena teatrali che parlano di incubi e terrori notturni. La voce che spesso è un sussurro anziché un grido. Billie Eilish Pirate Baird O’Connell, classe 2001, è l’esempio perfetto di come la Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2005, per convenzione), si scontri di petto con i cambiamenti dell’industria musicale e dei media negli anni Dieci. Una popstar nuovo modello, completamente diversa dalle sue colleghe più anziane delle generazioni precedenti: una ragazza del suo tempo, cresciuta al centro del mondo (a Los Angeles), nel mezzo di una continua rivoluzione delle comunicazioni che lei per prima non pretende di capire ma che le causa, come a molte e molti della sua età, diversi problemi di salute mentale fin dall’infanzia.
Vessata da ansia, paralisi del sonno e tendenze suicide, Billie (tutti la chiamano semplicemente così) cresce in una famiglia di artisti, miracolosamente protetta e incoraggiata in un ambiente ultra-competitivo come quello losangelino. I genitori sono entrambi attori (la madre compare anche in un episodio di “Friends”) e il fratello maggiore Finneas, suo compagno fedele sul palco e in studio (nonché co-autore della maggior parte delle sue canzoni) è anch’egli attore e musicista, è apparso in “Glee” e se la cava egregiamente anche come produttore. È proprio lui, quando la ragazza decide di abbandonare la danza ancora in giovane età, a “regalarle” il singolo “Ocean Eyes”, che diventa il vero primo successo di Billie Eilish una volta caricato su SoundCloud, nel 2015.
Billie è solo una adolescente e come molte della sua età si ritrova coinvolta nel vortice di quello che viene detto presto bedroom pop: ossia la musica da “cameretta”, realizzata dai giovanissimi che intendono auto-prodursi senza avvalersi del supporto di discografici, promoter, produttori e agenti. Con le nuove tecnologie digitali tempo metà anni Dieci, è ormai facile comporre, suonare e registrare musica in camera propria, a patto di avere un laptop decente e software come GarageBand.
Naturalmente poi i mezzi sono quelli che sono: infatti gran parte della produzione bedroom pop (genere che sembra essere sfiorito con la fine dello scorso decennio) è tipicamente lo-fi, sovente con chitarre acustiche (se si registra in camera non si può far casino, perché poi i vicini si lamentano) e toni trasognanti e psichedelici. “Ocean Eyes” si può collegare a questo genere, ma l’arrangiamento rarefatto e atmosferico prende molto soprattutto dal dream pop. Il brano è delicato e struggente, con un incantevole e poetico refrain: “Non è giusto, non sono mai caduta da così in alto/ Caduta dentro i tuoi occhi d’oceano”. E conquista tutti.
Non mi sorridere
È solo l’inizio: la popolarità di Billie, spinta dal suo atteggiamento da adolescente ribelle ma allo stesso tempo acuta e intelligente, cresce rapidamente e una serie di nuovi singoli conquistano in breve un pubblico sempre più ampio. Già nel 2016 il primo Ep, Don’t Smile At Me (dal titolo più che significativo) rende famose canzoni come “Watch” e “Bellyache”. La prima è un indie-pop dai toni apparentemente scanzonati ma che cela in realtà propositi di vendetta piuttosto psicotici: “Siederò e guarderò la tua auto che brucia/ Con il fuoco che hai acceso in me, e non sei mai tornato indietro a chiedermi di spegnere”. La seconda è una canzone indie-folk ispirata a un certo cantautorato femminile degli anni Dieci che nel refrain si decora di forti bassi e 808. Anche questo brano presenta un’immagine inquietante (e come vedremo nella carriera della cantante sarà un crescendo): “I miei amici non sono lontani/ Nel bagagliaio dell’auto/ Giacciono i loro corpi”.
Billie canta principalmente di delusioni portate dall’amore e dalla vita, ma lo fa con un’amarezza e un’inquietudine che di norma non si legherebbe a un’artista della sua età: è ben distante dai felici ritornelli proposti dalle teen popstar del passato e forse è proprio questo a invogliare sempre più ascoltatori a scoprirla. Dai suoi pezzi emergono espressioni di disillusione e visioni oscure che richiamano scenari traumatici, e la giovane star oscilla costantemente tra la fuga dalle ipocrisie della realtà del suo tempo e la paura degli orrori che si nascondono nella sua mente. Di conseguenza le sue canzoni assumono un carattere forte e atipico, non semplicemente adeguato alle richieste del mercato discografico ma particolarmente sensibile alle istanze delle persone più fragili, chiuse, insofferenti. La proposta musicale della cantante losangelina centra il giusto target proprio in un’epoca in cui i problemi di salute mentale sono sempre più diffusi ma allo stesso tempo molto più sdoganati.
La forza della sua musica deve molto naturalmente anche ai raffinati arrangiamenti studiati con Finneas nella sua camera da letto, luogo che diventa un vero e proprio studio di registrazione nella casa di famiglia. Nella sicurezza di quell’ambiente i due sono in grado di tradurre gli incubi di Billie in musiche dai toni grotteschi, inquieti, onirici. C’è un po’ di indie-pop, un po’ di cantautorato, un po’ di quello che abbiamo definito bedroom ma anche una grande influenza derivante dal pop da classifica mainstream (Billie è reduce da una passione letteralmente malata per Justin Bieber) e dal rap, genere di punta nella scena americana (il geniale e imprevedibile Tyler The Creator viene citato dalla cantante come sua ispirazione cardine).
Il successo della giovane artista californiana aumenta lentamente ma costantemente nel corso del 2017 e mentre l’Ep la fa conoscere sempre di più, il suo nome diviene noto in molti ambienti diversi. In aiuto le vengono la composizione di “Bored”, in tutta onestà non uno dei suoi brani migliori, per la colonna sonora della serie Netflix cult “13 Reasons Why”; e un featuring con il famoso rapper Vince Staples nel brano “&Burn”, che non è nient’altro che un remix della precedente “Watch”con una parte rap in aggiunta che vede come ospite il celebre artista. La scalata prosegue nel 2018 mentre Billie continua a ingraziarsi il mondo dell’hip hop e R&B pubblicando una cover di “Hotline Bling” di Drake e collaborando con Khalid, altro nome noto della scena, alla colonna sonora della seconda stagione di “13 Reasons Why” in “Lovely”, uno dei suoi più grandi successi fino a quel momento.
Dovreste vedermi incoronata
Fino circa alla metà del 2018, Billie Eilish è ancora una cantante adolescente esordiente come tante altre. Le cose cambiano quando le continue sperimentazioni in studio con il fratello e la ferrea volontà di distinguersi sulla scena portano alla realizzazione del singolo “You Should See Me In A Crown”. È un momento di rottura: la cantante americana si distingue improvvisamente da tutte le sue coetanee come una che nelle sue provocazioni osa e va oltre; comprende che i vecchi e i nuovi media vanno “bucati” insieme, con contenuti forti e un atteggiamento perennemente sarcastico e anti-celebrativo che ne cavalchi e sminuisca al tempo stesso la potenza di “hype”. E infatti Billie si fa strada in testa a una generazione di nuovi musicisti che alla promozione e all’attività artistica tradizionale integrano e prediligono la dimensione 4.0: social, Spotify, piattaforme streaming, YouTube, video virali su TikTok. Una concezione multimediale, fluida e cangiante del loro fare ed essere in musica, che funziona specialmente se legata a trovate che letteralmente buchino il video, nel senso che suscitano una tale fascinazione nel pubblico da conquistare più schermi, display e occhi contemporaneamente. E non occorrono necessariamente idee rivoluzionarie.
Nel video di “You Should See Me In A Crown”, basti dire questo, Billie si fa letteralmente camminare dei ragni sulla faccia. La canzone assume lo stesso carattere semplice e alternativo: un anti-refrain allarmante con base elettronica annuncia il nuovo corso della musica della giovane star e presto si inizia a parlare di dark-pop, genere che si potrebbe far risalire proprio a questo brano. In realtà, come avviene con tutte le etichette applicate in musica (come quella del grunge, per esempio), si tratta di un termine approssimativo. Difficile definire i confini di questo stile, ma si può andare sul sicuro nel dire che sia già stato anticipato da Lana Del Rey nel suo lato malinconico e da Grimes per quel che riguarda sperimentazioni, toni hyper-pop e anti-pop e un certo sarcasmo di fondo. In ogni caso, la Eilish ne diventa il volto principale.
Dalle liriche della canzone emerge una Billie molto cinica, che sbeffeggia il suo stesso pubblico e lo status di idol conferitole dai fan, sostenendo fondamentalmente che se vedessero la sua vera essenza non sarebbero così entusiasti di lei: “Dovreste vedermi incoronata/ Governerò questa città da nulla/ Guardatemi come li faccio inchinare, uno dopo l’altro”. E, anticipando tutta la caratterizzazione dominante di un’intera fase della sua carriera (che parte proprio da qui), non esita a richiamare scenari horror: “Conto le mie carte, li guardo cadere/ Sangue su un muro di marmo/ Mi piace il modo in cui tutti loro gridano”. Completa il tutto un secondo video d’ispirazione anime, diretto dall’artista giapponese Takashi Murakami, nel quale la cantante si tramuta direttamente in un mostro dalle sembianze di un ragno.
I luoghi del sonno
La consacrazione vera di Billie arriva nel 2019 con l’uscita del primo album blockbuster When We All Fall Asleep, Where Do We Go? Complice la popolarità di nuovi singoli perfetti e d’impatto come “Bad Guy” (tormentone vero e proprio di quell’anno), “When The Party’s Over” e “Bury A Friend”, il disco fa incetta di premi; il successo viene confermato dall’esibizione di Billie al Festival di Coachella 2019, con un riscontro fulminante; e ai Grammy Awards 2020 l’album impone definitivamente fratello e sorella come icone al centro della scena musicale.
Il primo album ufficiale di Billie Eilish è un disco puramente dark-pop, dai toni lugubri a tratti melanconici e con momenti fortemente grotteschi. Perno della tracklist è ovviamente “Bury A Friend”, canzone nella quale la cantante descrive vividamente i suoi orrori notturni e lo stretto collegamento tra il sonno e la morte; e il disturbante video, qualcuno insiste, conterrebbe riferimenti satanici. Un brano oscuro, giocato tutto su suoni bassi ed eterei, frasi sussurrate a metà e l’atmosfera di una filastrocca da incubo. Celebre l’inciso, grottesco ed esistenziale: “Che cosa vuoi da me/ Perché non scappi da me/ Che cosa immagini/ Che cosa sai/ Perché non hai paura di me/ Perché ti importa di me/ Quando andiamo a dormire, tutti quanti/ Dove andiamo a finire?”.
L’intreccio dei due temi centrali, il sonno e la morte, viene sottolineato anche da riferimenti molto più espliciti (“I wanna end me”, “Voglio farla finita”; e “Onestamente pensavo che sarei stata morta a questo punto”) e caratterizza l’intero concept dietro l’album, cover compresa: Billie vi compare su un letto come una presenza maligna, con le pupille completamente bianche come un demone. La metonimia del letto viene ripresa anche negli spettacoli dal vivo, dove, con un trucco ad effetto, la cantante sale su un letto vero che viene sollevato come da poteri sovrannaturali e continua a esibirsi in questa metafora di surreale sospensione.
“When The Party’s Over”, altro brano perno del disco, è una sconsolata ballad pianistica che affronta il tema della solitudine e si fa notare per una serie di arrangiamenti vocali sopraffini. Nel celebre videoclip, Billie beve un calice amaro, pieno di uno strano liquido nero, e inizia lentamente a piangere lacrime dello stesso colore per poi sciogliersi in una grande pozzanghera della medesima sostanza. Si narra che l’attacco di questo brano sia stato provato dai due fratelli novanta volte, tanto per dare un’idea del perfezionismo inseguito dai due nel loro modus operandi.
C’è poi naturalmente “Bad Guy”, brano dal ritornello ossessivo che ironizza sulla figura del “duro”, sia uomo, donna o chiunque, smontandola come una sorta di messa in scena da circo (e infatti i suoni, specie nel millennial whoop del refrain, disegnano un’atmosfera circense): Billie e Finneas sanno che tutti, in fondo, hanno delle debolezze. Il brano diventa presto il più grande successo della cantante e cattura tutti con l’inciso ipnotico e il ritmo incalzante. Rimane forse a tutt’oggi il suo pezzo più sarcastico e satirico ed è di sicuro quello che tutti conoscono, sentito in radio o in televisione in qualche pubblicità. È anche tramite il video di questo brano che Billie si imprime nel pubblico visivamente: capelli blu, sguardo spento, vestiti baggy (lei definirà poi questo suo stile, un po’ streetwear ma anche modaiolo, con il termine ombrello bhlosh) e atteggiamento liberamente adolescenziale.
Nella tracklist spiccano anche l’ironica e cadenzata “I Wish You Were Gay”, provocazione studiata anche per far indignare tutti gli omofobi, e “My Strange Addiction”, che riporta varie citazioni dalla serie cult “The Office” (di cui la cantante è appassionata).
Nel complesso, l’album è sorretto sempre da suoni bassi e vibranti, cantati discreti ma taglienti e testi profondi e provocatori. La natura anti-pop (più che dark-pop) di ogni brano risente immancabilmente della produzione nel clima sicuro della camera dei due fratelli ma anche delle tensioni che Billie e Finneas cercano di destare in ogni traccia.
Al successo del disco seguono una serie di momenti prestigiosi, come l’onore di comporre la canzone ufficiale di “No Time To Die” (il brano porta, come sempre, un titolo omonimo), l’ultimo film di 007 con Daniel Craig. La composizione viene registrata assieme al maestro Hans Zimmer, il guru delle colonne sonore delle grandi produzioni cinematografiche, e per l’occasione alla chitarra viene invitato un altro gigante, Johnny Marr degli Smiths.
Tutto quello che volevo
Ma fama e successo trascinano con sé anche pressione e incertezze: ne emerge il profondo singolo “Everything I Wanted”, che parla apertamente di suicidio riflettendo sulle reali necessità della vita. Un brano ritmato e delicato, che comunica fragilità: nel videoclip i due fratelli guidano un’auto apparentemente senza meta, e infine inaspettatamente s’immergono nell’oceano, continuando sul fondo del mare verso una fine tinta orribilmente di sollievo.
Nel 2020 arriva la pandemia e come tutti gli artisti musicali Billie sfrutta le lunghe ore di noia e tensione delle quarantene per comporre una gran quantità di nuove canzoni, dedicandosi al contempo a più progetti: è per esempio attiva nella moda, promuove prodotti per giovani ma sempre attenta a un’etica consapevole e fortemente progressista. Vota democratico (nel 2020 sostiene apertamente Joe Biden contro Donald Trump), grida al pericolo del riscaldamento globale (“All The Good Girls Go To Hell”, altro singolo dal primo album, parla proprio di questo), è vegana e supporta i diritti degli animali.
Nel suo corto “Not My Responsability” (poi singolo nel nuovo album) recita una lunga dichiarazione contro il body-shaming, del quale da anni si ritrova vittima su Instagram come tutte le celebrità e specialmente quelle di sesso femminile. Fa appena in tempo a presentarlo dal vivo prima della prima quarantena (che interrompe bruscamente il suo tour), e vi appare spogliandosi fino a restare in intimo e contemporaneamente “scomparendo” in acqua, di una superficie immancabilmente nera. Il sunto e punto chiave del brano è racchiuso in questi versi: “Il mio valore è basato solo sulla tua percezione?/ O la tua opinione di me non è mia responsabilità?” Una riflessione fondamentale per la sopravvivenza nell’era dei social.
Questo genere di pensieri, diretti a una crescita filosofica ma anche personale, portano a “My Future”. Pubblicata nell’estate del 2020, è forse la prima canzone di Billie Eilish dai toni davvero positivi, con sonorità più acustiche e parziali accenti di jazz, accompagnata da un video animato che invita alla resilienza e alla scoperta di sé stessi. Billie vi cammina come un personaggio di un fumetto, muovendosi in un bosco sotto la pioggia e in una metafora di cambiamento radicale ma positivo finendo col fondersi con la natura circostante, mentre smette di piovere e infine spunta il sole.
Più felice che mai
Nel 2021 esce il secondo album, Happier Than Ever, che presenta suoni più riflessivi, meditativi e profondi di quanto ci si aspetterebbe. Mancano i singoli di sicuro e facile successo del lavoro precedente e già si può iniziare a parlare meno di dark-pop (il genere, come il bedroom, entra virtualmente in declino nel giro di pochi anni; anche se è al momento ancora presto per sancirne la fine). Billie e Finneas compongono brani di bass music dalle tinte sempre oscure ma lasciando spazio a molti interventi strumentali acustici e analogici, scoprendo una vena molto più cantautoriale e adulta. Aiuta, naturalmente, il fatto che nel frattempo la cantante sia diventata maggiorenne.
Se il concept del primo album girava attorno all’idea del sonno e dell’incubo in una caratterizzazione simil-horror, questo secondo lavoro prende come spunti di riflessione principali gli up-and-down del successo e della celebrità.
Il singolo “Your Power” fa conoscere nel nuovo anno l’immagine inedita di una Billie bionda e più adulta. Nel video della canzone, ambientato nel deserto californiano, la ragazza si fa avvolgere da un serpente per lanciare un forte messaggio contro l’abuso di potere e l’esercizio del controllo; di una persona su un’altra, magari con meccanismi psicotici, tossici e passivo-aggressivi; ma anche dell’autorità su un individuo, tema particolarmente scottante negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, solo un anno prima.
Nella tracklist si fa notare anche la potente “Oxytocin”, dal suono volutamente tech-house, che narra di peccato e perdizione; è il brano più dance e quello più ritmato dell’album, eccezione clamorosa in una tracklist altrimenti molto pacata e riflessiva, se si eccettua forse anche il momento Idm criptico di “Goldwing”.
C’è posto anche per l’inno all’emancipazione femminile di “Therefore I Am”, un grande commento electropop all’insegna del sarcasmo che parte dal famoso motto cartesiano per riflettere sulla condizione della donna che è in quanto esiste e non si definisce in base ai suoi rapporti con gli uomini. Un tipo di riflessione ricorrente nella musica dell’artista e che del resto riflette le istanze dell’epoca post-#MeToo, fortemente orientate alla garanzia di uno status femminile finalmente moderno ed emancipato. In quanto giovane popstar donna, Billie Eilish è direttamente interpellata. Notevole anche “NDA” (sigla per “Non Disclosure Agreement”), altra canzone centrale nel concept, che riflette con accuratezza sulle necessità alienanti delle persone famose che cercano di conservare disperatamente un po’ di privacy.
Nel suo complesso, la tracklist del secondo disco è un altro grande commento dei tempi, stavolta espresso con maggiore maturità e minor senso della provocazione, con un impatto colto maggiormente da un pubblico più adulto e in minor misura da quello degli adolescenti alla ricerca perenne del nuovo fenomeno virale.
All’indomani della pubblicazione dei due album la cantante di Los Angeles si staglia come una delle figure più alternative del panorama pop. Idolo della sua generazione ma anti-idolo per i canoni della musica commerciale, continua a spingere per produzioni musicali atipiche che ridisegnino i gusti mainstream e comunichino quanti più messaggi e inviti alla riflessione possibile senza, per questo, tradire l’esigenza di suoni ballabili, melodici e canticchiabili da cima delle classifiche (di ascolto su Spotify, si intende).
Il terzo colpo
Il ritorno di Billie Eilish con il suo terzo album, Hit Me Hard And Soft (2024), è segnato da una necessaria maturazione che si accompagna a una crescita musicale e stilistica dirompente ma, al tempo stesso, delicatamente intessuta. Sempre a fianco del fedele fratello Finneas, con il quale ha composto anche queste nuove dieci canzoni a quattro mani, Billie O’Connell sperimenta, esplora e amplia il suo raggio d’azione a livello di sonorità, dimenticando e lasciandosi le spalle l’immagine della sé stessa ribelle adolescente colma di ansie e insicurezze e approcciandosi a una versione di sé decisamente più adulta.
Questa direzione in realtà non era imprevedibile: si coglieva già nei tratti più soffici e intimi del secondo album, Happier Than Ever, e anche nelle uscite più recenti come “What Was I Made For?”, la canzone parte della colonna sonora (e vincitrice di un Oscar) della “Barbie” di Greta Gerwig.
Nel nuovo disco sono tre i tratti distintivi che caratterizzano la Billie più “adulta”: uno, composizioni molto più articolate; due, una maggiore espressività vocale; tre, il passaggio a sonorità più acustiche ed eclettiche.
Per quanto riguarda il primo punto, ci troviamo di fronte a canzoni dalla struttura più articolata, nelle quali Billie e Finneas si dimostrano piuttosto insofferenti alla classica formula strofa-ritornello-strofa-ritornello-variazione-ritornello. Ci sono quindi per esempio la tripartita “Bittersuite” (gioco di parole, ovvio, con la parola “bittersweet”), una breve antologia dolce/amara, appunto; l’elegante “L’Amour De Ma Vie”, che inizia come un raffinato brano à-la “Michelle” ma a metà cambia e si sposta su suoni synth anni 10, trascinandosi verso quella che pare la nostalgia per una Billie più “giovane” e con tanto di autotune; e anche la conclusiva, sofferta “Blue”, che prende l’abbrivio come un deciso brano ritmato ma si inabissa poi in suoni più riflessivi e spenti, chiudendo il disco su note enigmatiche.
Il tutto è accompagnato - punti due e tre - da un uso della voce ora molto più aperto a melismi e gorgheggi, meno a sussurri e acuti impostati solo su sequenze di note fisse, e da arrangiamenti che si spostano verso influenze rock e jazz ma lasciando spazio anche ad altro, come nella sorprendente power ballad di “The Greatest”, anche questa nel refrain molto anni 10 o nel dark-pop di “The Diner”.
“Birds Of A Feather” tradisce la chiara influenza di Taylor Swift (forse quella di “Folklore”, 2020), da sempre dichiarato punto di riferimento per Billie. “Lunch” è invece l’unico brano forse un po’ provocatorio, la “Bad Guy” di questo disco se vogliamo, nel quale Billie esprime abbastanza esplicitamente anche se per metafore l’apprezzamento per una ragazza: “Mangerei quella ragazza per pranzo/ Lei balla sulla mia lingua”. Anche da versi come questo emerge lo sguardo più adulto ed emancipato che la cantante americana getta sui temi trattati, i quali a loro volta la conducono lontana sia dai lidi delle crisi post-adolescenziali espresse nel primo album – pensieri suicidi, sogni horror, incubi di morte – che dalle urgenze derivanti dal peso della fama nel secondo – il body-shaming, la privacy, l’ansia per il futuro.
In questo terzo album, Billie sembra finalmente riuscire a lasciarsi andare, godendosi la sua fama e le sue relazioni, parlando d’amore e di sentimenti in modo molto più libero e molto meno negativo. Lo dicono i testi, più aperti all’accoglimento di affetti estranei, e lo confermano gli arrangiamenti, decisamente impostati verso atmosfere più positive e molto meno inclini a introspezioni fatte di ritmi tenui e bassi pompati. Le paure e le insicurezze della Billie adolescente, arrivata al successo mondiale a 17 anni filtrano quindi in quella che al massimo si può definire ora una mesta malinconia alla Lana Del Rey, che tuttavia spesso e volentieri si lascia andare a sfoghi di pura energia positiva. Non ci sono più l’aggressività di una “Oxytocin” (2021), il sarcasmo di una “I Wish You Were Gay” (2019) o il rancore di una “Watch” (2017).
In loro vece trovano spazio i suoni composti, riflessivi e a tratti sgargianti di una artista in maturazione, che scopre con genuina curiosità la sua dimensione cantautoriale allargando i confini delle sue possibilità e, allo stesso tempo, mettendo alla prova il suo pubblico. Se è vero infatti che almeno due o tre canzoni – diciamo “Lunch”, “Birds Of A Feather” e “The Diner” – funzionerebbero bene come singoli, magari con dei buoni videoclip e anche “in radio” come si diceva un tempo, è anche vero che gran parte della tracklist si rivelerà particolarmente “ostica” per i fan storici dell’artista californiana, in sintonia con la strategia promozionale molto asciutta adottata per l’album: solo un annuncio, niente singoli e pochi, criptici indizi. Una impostazione che con le pinze si potrebbe definire anche “anti-commerciale”, o che di certo non cavalca l’onda né le mode del momento, non ricerca l’orecchiabilità né l’easy listening, non attira gli adolescenti con facili melodie e ritornelli orecchiabili.
Hit Me Hard And Soft” è invece un lavoro di spessore, composto argutamente, con dieci canzoni intriganti, ricche di sfumature e di idee, nelle quali spesso solo a stento si può riconoscere quella artista giovanissima dai capelli blu – o verdi, o bianchi – che tanto aveva intrigato le masse all’ultimo cambio di decennio. In questo senso la caduta di Billie nel suo personale abisso, espressa in copertina, non è da leggere in senso negativo; la cantante si immerge, non sprofonda, e come rivolge il suo sguardo verso il basso, ma verso la porta che rappresenta l’uscita. Un’uscita che forse è ancora da raggiungere, ma che perlomeno ora si intravede.
Don’t Smile At Me (Ep, Darkroom, 2017) | ||
When We All Fall Asleep, Where Do We Go? (Darkroom, Interscope, 2019) | 7 | |
Live At Third Man Records (live, Third Man Records, 2019) | ||
Happier Than Ever (Darkroom, Interscope, 2019) | 7,5 | |
Hit Me Hard And Soft (Darkroom, Interscope, 2024) | 8 |
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