Negli ultimi sette anni ero riuscito a far chiaro a me stesso che il complesso italiano della mia adolescenza non avesse più niente da dire: tanto era trascorso da quando avevo messo le mani sull’ultimo lavoro almeno decente degli Elio e le Storie Tese, quell'"Eat the Phikis" che era riuscito (impresa difficile) a conciliare lo spirito inevitabilmente élitario della loro musica con gli onori che "Sorrisi & Canzoni" tributava loro dopo il secondo posto a Sanremo - un voto popolare che poi si rivelò opportunamente manipolato, assegnò la vittoria a Rosalino Cellamare. E' stato quindi con un misto di rassegnazione e flebile speranza di esser nuovamente stupito (ai primi tre dischi, pubblicati tra il 1989 e il 1993, manca pochissimo per esser definiti capolavori) che mi accingevo ad ascoltare "Cicciput". Desiderio disatteso, come quasi sempre accade in questi casi (non per "Shotenanny!" degli Eels, ad onor del vero).
Quando il loro amico dj Linus presentò gli Elio a un Noel Gallagher all'apice della fama, nel corso di un pomeriggio domenicale di Italia1, lì definì alla spicciola "more comedians than musicians". In realtà il consenso più che discreto che la band ha riscosso presso il pubblico, ci permette di poter dire che sì, sappiamo come Elio e le Storie Tese possano vantare una notevole perizia tecnica nel suonare e sì, sappiamo anche che al loro arco hanno un'estesa conoscenza degli stilemi della musica leggera (ma anche jazz) italiana e non, e come questa padronanza sia stata spesso ingrediente dei loro momenti migliori: il piacere che si prova nell'ascoltare un disco di Elio e i suoi non è istintivo, in quanto trattasi di musica volutamente non-compiuta, ma è quello prettamente intellettuale del fruitore che riconosce (o crede di farlo) i tratti una poetica ben definita di chi sta suonando: tratto questo che accomuna trasversalmente la band ad altre formazioni quali Quintorigo e Area (in particolare post-Stratos); questo almeno ipotizzando di non considerare chi Elio ascolta perché "il rock demenziale fa ridere": non è per loro che chi scrive lo sta facendo.
Può il sorriso intellettuale e inevitabilmente snobistico che la band vuole provocare in chi ascolta risultare un limite al progetto della stessa? Può, perché un simile approccio al pubblico pretende una fucina di idee tremendamente attiva alla base. Quando ciò non è più, i fantasmi della ripetitività, dei cliché, della noia, della maniera - in origine proprio quello di cui ci si voleva far beffe - si materializzano, crudele contrappasso, in un baleno. Questo è quanto accaduto a Elio e le Storie Tese, progressivamente, in tempi recenti: "Craccracriccrecr" (1999), disco orrendo, ne è la dimostrazione più lampante. E, purtroppo, anche quello che accade per questo "Cicciput". Cosa resta? Lampi di quella melodia che i nostri sanno maneggiare come pochi, qualche sprazzo della vecchia classe dissacratoria, poco o niente altro. Due sono le composizioni, invero carine, che fanno mostra di quanto appena detto: la pacata brillantezza di "Gimmi I" e "Fossi figo", ideale seguito di "Tapparella", il miglior pezzo di "Eat The Phikis". Inserti parlati grotteschi (Crozza e un anonimo rapsodo di un improbabile quanto verificato zeitgeist brianzolo), lo straniamento delle ospitate "eccellenti" (i fedelissimi Ruggeri, Bisio, Savino e le novità Morandi e Pezzali), la parodia e il sincretismo dei generi - il power pop del singolo "Shpalman", il pop anni '90 ("Gimmi I."), la canzone alla francese, la vaudeville moderna di "Abate Cruento". Gli strumenti sono esattamente gli stessi dei dischi che li hanno fatti grandi.
Ma il risultato è nettamente inferiore, tanto per bellezza intrinseca quanto per freschezza: per loro natura, nel momento in cui questi accorgimenti son sulla bocca di tutti, non fanno più sorridere. Anzi, l'ascoltatore tradito della prima ora storce immancabilmente il naso: insopportabile "Budy Giampi" con Ruggeri e l'architetto Mangoni, già tra i principali artefici delle delizie dei lavori andati, patetica la fittizia rabbia pseudo-brillante di "Cani e padroni di cani" e "La follia della donna", la dance di "Pilipino Rock" (vorrebbe ricalcare la formula del "Pipppero"), le citazioni "colte" (l'intro di "Shine On You Crazy Diamond", un lick quasi rubato a "The Wind Cries Mary") non suscitano se non il nulla più assoluto in quelli che vorrebbero essere dei pastiche ma si concretizzano piuttosto in pasticci. Sulla più parte della seconda metà del disco, mero riempitivo, non val neppure la pena di spendere una parola per rispetto agli Elio e le Storie Tese che furono. E non sono più.
Ascolterò ancora questo "Cicciput"? Ho già intorno troppa gente modello ma che bello Quelli che il calcio mai dire gol e soprattutto Zelig, perché possa anche solo cadere in tentazione.
27/10/2006