Dopo tre dischi, più di quattrocento concerti sparsi per l’Italia e otto anni complessivamente trascorsi nell’agone della musica indipendente, i pisani Zen Circus scelgono di darsi un allure internazionale grazie alla partnership con Brian Ritchie (ex Violent Femmes) ormai quarto membro del gruppo a pieno titolo (e richiamo dal vivo) e qui anche produttore.
L’abbondanza di idiomi (italiano, inglese, francese, persino slavo) e le ospitate di lusso (oltre a Ritchie, si contano le sorelle Deal, Kim e Kelly, Giorgio Canali e Jerry Harrison dei Talking Heads nella didascalica rilettura di "Wild Wild Life") rappresentano una buona scriminatura fra le esigenze di una distribuzione internazionale (peccato che, garante di ciò, la tedesca Hausmusik sia fallita proprio mentre il disco era ancora in stampa, prontamente rilevata dalla Unhip) e l’orgogliosa persistenza del loro generoso (e sfortunato) idioletto "buttero-punk". Quest’ultimo si fa di gran lunga preferire nel beach-folk ruspante e "giancattivo" di "Figlio di puttana" (con il singer Appino che avrà pure gli occhialoni a specchio come Gordon Gano, ma canta uguale uguale a Rino Gaetano), nel sarcasmo salutare di "Vana gloria", nell’inno generazionale "Vent’anni" o, perché no, persino nel raw hide gitano di "Narodna Pjesma".
Spassoso anche se un po’ manierato l’elettro-punk da balera di "Punk Lullaby", un incrocio fra Le Tigre genere trans e i Cccp di "Rendez vous" (Kim Deal è la loro Amanda Lear), meno convincenti le clashiane "Dear Penfriend" e "Beat The Drum" e decisamente scadente, invece, "Dirty Feet", che sembra uno scarto dei Violent Femmes (il basso di Ritchie è un marchio inconfondibile e sibillino, l’eterno adolescente che se ne sbatte d’imparare come si suona), cantato con l’enfasi seriosa e fuori luogo d’uno Springsteen acerbo.
Folk-punk di buon livello, che per il momento non riesce a elevarsi oltre i propri pur notevoli sforzi, ma che merita comunque rispetto. Nemo propheta in patria. Coraggio, ragazzi, tenete duro.
17/02/2008