PJ e John si conoscono da quasi un quarto di secolo, dalla prima metà degli anni Ottanta quando lui era il leader degli Automatic Dlamini e lei un'adolescente precoce ed entusiasta che s'intrufolava sul palco durante le loro esibizioni brandendo un sax (il suo primo strumento), una chitarra o gracchiandone i cori. E da allora - anche se ne è passato di tempo, e la fama mondiale, quella che ti cambia dentro e ti fa scordare di chi sono gli amici veri, ha arriso, in varia misura, a entrambi - non si sono mai persi di vista: nel '95 lui produce uno dei dischi più famosi di lei, "To Bring You My Love"; l'anno dopo lei presta la sua voce inestimabile a un album interamente composto da lui e firmato da entrambi, il "weilliano" "Dance Hall At Louse Point"; poi, ancora, due anni fa, quando la carriera di lei sembrava, musicalmente, a un punto morto, lui, cavaliere, è accorso aiutandola a mettere in cornice quel fulgido e controverso "ritratto di signora" che è "White Chalk".
La stessa coppia inossidabile, in odor di nozze d'argento, è all'opera nell'ideale seguito di "Dance Hall At Louse Point", non a caso intitolato "A Woman A Man Walked By" (anche se, per dirla tutta, si tratterebbe d'un immaginario menage a trois completato da Flood, già con loro tredici anni fa). Un album intenso, diretto, salace. In confronto al primogenito: più centrato sull'impatto delle singole tracce (che condensano nella forma-canzone spartana una molteplicità di spunti: dai più futuribili, sintetici, elettronici, a elementi rock classici, rootsy, distorsivi e muscolari) che sul climax teatrale del concept.
Lo si capisce già dall'opener e singolo "Black Hearted Love", tiro indie anni 90, dimensione anthemica, quasi Fm, un ritorno al futuro. Lo conferma, di filata, "Sixteen, Fifteen, Fourteen", duetto per banjo e chitarra acustica, folk malato e spasmodico che rimanda al terzo Zeppelin e PJ che sembra davvero contare gli anni al contrario per risalire fino alle più scatenate performance vocali della sua adolescenza. E se l'autoharp di "Leaving California" (punteggiata di wurlitzer e riverberi di feedback) e "The Soldiers" rimanda alle atmosfere neo-vittoriane presenti nell'ultima fatica della cantautrice del Dorset, nell'esplosiva title track Parish ricarica le batterie del suo fregolismo vocale (recitato, gutturale, falsetto, screaming) in una sorta di abbacinante inno post-femminista alla mascolinizzazione che sciama fino alla chiusa electro-percussiva da kabuki psichedelico (denominata "The Crow Knows Where All The Little Children Goes") e sugli stessi toni apocalittici si eleva il paleo-grunge tribale per farfisa e chitarra di "Pigs Will Not".
"The Chair" condensa in due minuti e mezzo bassi dub, ritmiche kraut, ripartenze chitarristiche e ascensioni chiesastiche; "April" e "Passionless, Pointless" fondono in modo suggestivo e originale elettronica downtempo e dream-folk con PJ che mesmerizza la scena come una soprano strangolata nell'abbraccio d'un fantasma dell'opera.
Una delle migliori PJ dai tempi di "Stories Of The City, Stories Of The Sea". E un John, pregiatissimo demiurgo del rock alternativo, che di comune ha solo il nome. Una donna e un uomo.
(29/03/2009)