La Scandinavia ci ha abituati bene, in tema di pop zuccheroso et similia. A partire dal capostipite Jens Lekman, si è sviluppata tutta una schiera di band e artisti dal sound ormai riconoscibile. Diversi filoni sono germogliati in uno spirito di revival che attinge da fonti diverse e contigue allo stesso tempo: da una parte il richiamo smithsiano ha attecchito nei gruppi a cui la Matinée fa da chioccia (Cats On Fire e Northern Portrait), dall'altra il battage new new wave ha creato emuli di un certo peso in queste terre. Tra questi ultimi, nei quali ricordiamo anche i Mary Onettes e i Fanfarlo (per metà svedesi in virtù della provenienza del frontman), gli Shout Out Louds rivestono un ruolo di primo piano. Giunti al terzo disco, si affidano alle sapienti mani di Phil Ek, deus ex machina di alcuni dei maggiori successi marcati SubPop ("Fleet Foxes", "Cease To Begin", "Chutes Too Narrow").
In effetti, "Work" ha tutto ciò che serve a replicare la fortuna di quei lavori: pezzi coinvolgenti ed eleganti al tempo stesso (l'ironica "1999"), il tributo ai Cure ("Fall Hard") debitamente digerito, aperture di grande respiro ("Walls", "Moon"). Questo disco rappresenta la cosiddetta "prova della maturità" per la band di Stoccolma, a perfezionare il percorso intrapreso nel precedente "Our Ill Wills" e lasciandosi definitivamente alle spalle l'acerbo esordio di "Howl Howl Gaff Gaff".
Il carattere "maturo" della prova è evidente sia nella compostezza del cantato di Adam Olenius (al tempo stesso più smithiano che mai), ma anche e soprattutto nella varietà delle soluzioni e nel senso della misura con cui si sviluppano i pezzi. La stessa Merge, che pubblica "Work", lo descrive come uno "strappar via i sonagli e i fischettii delle prove precedenti".
Ad esempio "Walls", il singolo di lancio, è una scherzosa cavalcata in progressione (che richiama prima i già citati Fanfarlo e, di riflesso, gli Arcade Fire) in cui i tocchi di piano si ampliano fino al finale muscolare, in cui la mano di Ek ha sicuramente il suo peso nel risalto corposo, quasi tangibile delle chitarre. Un biglietto da visita accattivante ma che non riesce a descrivere del tutto la profondità di un disco assai scorrevole seppur curato nei particolari. Mettiamoci anche il lento insinuarsi della psichedelica "Candle Burned Out", prima confessione sussurrata, poi piccolo fuoco d'artificio.
"Work", infatti, pur nel revival e nella ricerca dell'eleganza di certo non nascosta fin dalla copertina, è un disco vivo, non ingessato nei suoi canoni alla maniera dei conterranei Mary Onettes. Difficile non lasciarsi coinvolgere dall'apertura enfatica in coda a "Moon", introdotta dal sussurro: "In the dark/ In the dark/ I dare to tell you". O dal profumo assolato del folk-rock di "Throwing Stones", dalla chiusura ammaliante di "Too Late, Too Slow", così come in "The Head On The Door".
È insomma una primavera anticipata, quella degli Shout Out Louds, una primavera tiepida e imprevedibile, come quella della loro terra. Dopo aver seminato, in questi anni, è giunto il tempo di raccogliere i frutti.
22/02/2010