Il sole della California, direttamente da San Francisco, parte e solca gli oceani, per questa primavera. Un festino di undici pillole, mai oltre i sei minuti: riff psichedelici, sieste psych-blues e qualche sabbiosa ruvidezza stoner e hard(rock). Un ottimo Lp da sparare in macchina, nel caso ci si trovasse su una di quelle epiche superstrade, vuote e perse nel nulla: a bordo di una decappottabile, con un voglioso, accaldato partner di fianco, e con un lungo viaggio davanti.
È "Spine Hits": terzo album di studio per gli Sleepy Sun, ancora con l'Atp Records, dopo "Embrace" (2009) e "Fever" (2010), e dopo che la co-fondatrice del gruppo, la bravissima Rachel Fannan, ha abbandonato il progetto per incidere il suo "Deeper Lurking". Ma anche dopo che questi giovani di Santa Cruz hanno aperto splendidamente i concerti di Arctic Monkeys, Autolux, Mudhoney e collaborato con gli U.N.K.L.E.
Dietro le quinte, a dirigere la jam di Bret Costantino (voce), Matt Holliman ed Evan Reiss (chitarre), Brian Tice (batteria), e Jack Allen (basso), c'è addirittura il produttore Dave Catching che nella vita, fra l'altro, ha suonato la chitarra per Queens Of The Stone Age e Eagles Of Death Metal.
Alla fine, con la voce di Costantino così sexy, giovane e convinta, a ricordare un po' Alex Turner, ne esce un disco gradevole. Nostalgico di Led Zeppelin e Black Sabbath vari, l'album scorre liscio, suonato con consapevolezza da una band molto affiatata.E meno male, che così, se la leggendaria superstrada è intasata, il mezzo un'utilitaria, il partner incazzato, e il viaggio un mini-fine-settimana, almeno c'è la musica: che, non sempre, ma spesso, risolve tutto.
Per il resto, poca identità. La band è una bolla temporale, che celebra quello che è il più pop(ular) di tutti i rock. I "sole assonato" abbandonano le lunghe suites di "Fever", piene di spunti, ma acerbe, per preferire una forma-canzone più diretta. Così però, perdono anche molte delle idee divertenti e particolari, tutte da sviluppare, dei primi due album. Cioè un disco maturo, con meno noia, ma anche molto meno coraggio.
"Stivey Pond" e "She Rex", calde, quasi ballabili e molto da radio; "V.O.G.", accattivante, con le sue scivolate blues tra riffoni e hard-schitarrate; "Creature", registrata live; la sincera "Still Breathing"; intermezzo folk, con la sua armonica finale e gli archi accennati; le trasognate "Yellow End" e "Lioness", con assoli urlanti; ecco alcuni dei più notevoli momenti del disco.
La più azzeccata, però, è "Martyr's Song", il cui testo è ispirato a un esercizio svolto per uno studio sulla schizofrenia. Un crescendo, sudato, emotivo, esausto, con un giro melodico che guida il pezzo dall'inizio alla fine: bene, c'è almeno un pezzo che riesce ad agganciarsi all'orecchio.
09/04/2012