Ormai tutti dovreste sapere che al mondo esistono due tipi di individui: persone che vivono e persone che suonano. I Wooden Wand, all'anagrafe James Jackson Toth più una serie di amici vari ed eventuali, fanno parte del secondo gruppo. Purtroppo però, a loro nello specifico, deve essergli scappata la mano e anche qualche rotella - a volere essere maligni. Vi basti sapere che il nostro, dal 2003 ad oggi, è entrato in studio per registrare un disco complessivamente 29 volte; il che, a una rapida media complessiva e con l'aggiunta di altri 11 Ep per arrotondare, farebbe un'invidiabile (o detestabile, a seconda dei casi) media di 4 uscite l'anno.
In più c'è da aggiungere che, mentre tutti noi siamo già tendenzialmente abituati a una produttività intensa da parte dei giapponesi, di artisti dediti alle avanguardie o, nella somma delle parti, da giapponesi dediti alle avanguardie, James invece abita a New York e si è sempre dedicato a un folk psichedelico con influenze ombrose, che possono andare dal solito Cash agli Angels Of Light, passando per i Counting Crows o persino John Mellencamp e compagnia andante.
Ora, ad essere sinceri e a volergli bene, il collettivo Wooden Wand non azzecca un disco dal 2005. O meglio, il collettivo Wooden Wand sta cercando di entrare (consapevolmente o meno, non c'è dato saperlo) nel Guinness dei Primati come band che è riuscita a coprire più gradazioni di grigio sul canovaccio originale della propria idea musicale. La cosa spassosa, se così si può dire, è che mentre stiamo scrivendo del suo nuovo capitolo, il marchio Wooden Wand ha annunciato già un altro disco a suo nome per la metà del 2013, “The Earth & Turf”. Capirete allora da voi che qui e ora parlare di musica sia piuttosto relativo. Se siete entrati nel vortice delle produzioni di Jason non vi occorrerà arrivare alla fine di questa recensione, vi basterà solo sapere che è uscito un altro dei suoi dischi di country ombroso. Stop.
Per tutti gli altri, “Blood Oaths Of The New Blues” è (in senso molto lato) un'ennesima raccolta di otto canzoni che prima si sono chiamate in un altro modo e ora si chiamano con quello attuale. Un dischetto della durata di quaranta minuti che sfoggia, come suo momento di massimo splendore, una penultima traccia dall'inequivocabile titolo di “Jhonn Balance”: tributo molesto di irritante alt-country al compianto cantante dei Coil, sei minuti di cui nessuno avrebbe sentito mai e poi mai la mancanza.
Evidentemente tutte le furberie di Boyd Rice spacciate per dischi devono aver fatto scuola; questo disco, inseribile negli scaffali alla voce “truffa”, dice la sua cercando di trovare una qualche originalità stilistica. Cosa oramai impossibile, perché dopo aver fatto uscire complessivamente 56 titoli (tra album, singoli, split e quant'altro) in nove anni è assai probabile che non si abbia (semplicemente) più un beato nulla da dire.
Non c'è sorpresa all'ascolto, “Blood Oaths Of The New Blues” di nuovo non ha nulla e alla fine risulta soltanto moscio.
26/12/2012