In quanti nella prima metà degli anni 90 avrebbero ucciso per Eddie Vedder? Tale era il suo ascendente verso i giovani della Generazione X, e tanto era adorato dalle masse, che lui stesso ebbe a un certo punto paura di affrontare l’immensa popolarità che divenne una delle principali cause del suicidio di Kurt Cobain, l’altra grande voce del disagio adolescenziale messo in musica dal movimento grunge.
Sono passati ventidue anni dalla pubblicazione del multimilionario (in termini di copie vendute) “Ten”, e i Pearl Jam restano fra i pochi protagonisti dell’epoca ancora in piedi e ancora in grado di dare alle stampe dischi iper-attesi, credibili e autorevoli. Certo, la rabbia che fece grandi i primi tre album della band di Seattle non c’è più da tempo, e difficilmente potrebbe esserci dopo oltre sessanta milioni di copie vendute in giro per il globo, ma i Pearl Jam continuano a confermarsi affidabili e rispettabili.
Il suono complessivo del nuovo album, il decimo in studio, non si discosta dalla loro produzione più recente e, diciamolo francamente, non riesce ad aggiungere nulla di nuovo a una storia ricchissima di picchi importanti. Questo non significa che si tratti di un lavoro inutile, o del quale si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno, no, occorre essere felici che i Pearl Jam siano ancora qui: solo dio sa quanta fatica costa non poter ascoltare un nuovo disco con la voce di Cobain o di Layne Staley, due fra le anime dannate dell’ultimo grande movimento che la musica rock sia stata in grado di produrre.
Oggi ascoltare un nuovo disco dei Pearl Jam è come riabbracciare un caro vecchio amico, del quale sappiamo praticamente tutto, ospitarlo fra le mura delle nostre case, offrirgli da bere: è un piacere averlo accanto, non ti stancheresti mai di discorrere con lui, anche se dopo tanti anni non può più sorprenderti. Quindi siediti pure Eddie, e sorseggiamo assieme questo nuovo cocktail che hai deciso di intitolare “Lightning Bolt”.
Due singoli hanno anticipato l’album, li abbiamo già ampiamente metabolizzati, e sono fra i momenti più riusciti e caratterizzanti: “Mind Your Manners”, con la piacevolmente spiazzante attitudine simil-hardcore, e “Sirens” con quelle eleganti delicatezze pronte ad avvolgere l’ascoltatore. Probabilmente saranno questi gli stralci di “Lightning Bolt” destinati a restare fra i classici del gruppo. Anche “Sleeping With Myself” era già nota, in quanto contenuta (in una versione più "nuda") in “Ukulele Songs”, un brano al quale Vedder ha voluto concedere una seconda opportunità, lasciandolo rivestire di un sobrio arrangiamento full band.
Per il resto “Lightning Bolt” è idealmente divisibile in due parti: per metà tradizionalmente (e prevedibilmente) Pearl Jam, per l’altra metà rivolto verso nuove strade, dove spuntano gli accenti urban blues di “Let The Records Play” e le intriganti rarefazioni di “Pendulum”, vetta assoluta del disco, con un testo basato sulle oscillazioni che caratterizzano la natura umana, un brano che testimonia quanto la coppia Ament / Gossard sia in grado ancora di costruire grandi pezzi.
La produzione torna salda nelle mani di Brendan O’Brien, colui che ha firmato gran parte dei migliori lavori del combo di Seattle, ed anche in questo caso contribuisce a mantenere il disco compatto, in equilibrio fra gli efficaci episodi elettrici (“My Father’s Son”, con il basso di Jeff Ament sugli scudi, la contagiosa “Infallible”), e le delicatezze sulle quali la band va sul sicuro (le conclusive “Yellow Moon”, con tanto di solo del guitar hero Mike McReady e “Future Days”, con contorno di archi) direttamente figlie del Vedder di “Into The Wild”. C’è qualche compitino ben svolto, che magari troverà linfa vitale nella tanto attesa prova live, come nel caso di “Swallowed Whole”, della title track e dell’iniziale “Getaway”, rafforzata da uno di quei ritornelli che una volta ci facevano sentire al centro del mondo.
Di furore grunge, come dicevamo sopra, non c’è più traccia, del resto da “No Code” in poi i Pearl Jam - in maniera lungimirante - decisero di mutare direttrici sonore, consolidandosi grazie a quella scelta come una delle più grandi modern classic rock band al mondo. Forti delle liriche di Vedder, in grado di segnare un plus che altri frontman-songwriter possono soltanto sognare di raggiungere.
“Lightning Bolt” è un album per metà egregio e per l’altra metà semplicemente onesto, ma pregno di quella onestà che continua a porre i Pearl Jam di gran lunga al di sopra di tutto quel “mordi e fuggi” che caratterizza il panorama musicale dei nostri tempi. Le nostre orecchie e la nostra attenzione sono troppo spesso distratte da un eccesso d’offerta musicale che non potrà mai essere assorbita da un’adeguata domanda. In tale caos discografico fermarsi un attimino ad ascoltare questi cinque ex-ragazzi è anche il modo di ringraziarli per tutte le emozioni che ci hanno regalato in passato.
Un atto dovuto da tutti coloro che hanno sognato, pianto, trovato le spiegazioni del proprio malessere nella poetica di “Ten”, “Vs” e “Vitalogy”. Perché Vedder è un po’ come Woody Allen: continui ad amarlo anche quando non gli esce un prodotto esattamente memorabile. Resta qui e versati un altro bicchiere, caro vecchio Eddie.
11/10/2013