Everybody’s a victim, except for small, white, nice guys
who just want to make their moms proudand touch some boobies
(Ariel Pink)
Ariel Rosenberg è tornato. Ariel il misogino. Ariel il disadattato. Ariel l'empio profanatore di madonne incartapecorite. Ariel l'indifeso enigma tra parodia e vulnerabilità.
A due anni dalla solenne promessa di mettere finalmente la testa a posto e dare seguito a quei “Mature Themes” ultimo lascito della band-fantasma Haunted Graffiti, ritorna invece in grande spolvero il solito Mister Pink tutto ambiguità e controversie, l'eccentrico weirdo che si commuove a un coro di bambini che reinterpreta la sua ormai classica “Round And Round” allo stesso modo in cui si fa beffe di una proposta di collaborazione arrivata nientemeno che dall'entourage-potëmkin di una certa signora Ciccone (che dal canto suo si è affrettata a smentire ogni volontà di collaborare con delle “sirenette”).
Eppure, tra le righe del gossip, delle mezze dichiarazioni, degli sguardi, si intuisce come questa volta al fondo di tutto Ariel Pink abbia mantenuto il fioretto e che il cazzone di appena qualche anno fa stia lentamente sfumando per davvero in una personalità più definita e a fuoco, quasi “consapevole” ma non per questo meno fragile o cinicamente melanconica.
Ma andiamo per gradi ed entriamo nel merito di un disco che per titolo fa pur sempre “Pom Pom”.
Si apre con una sfilata di maialini rosa e impermeabili di plastica, il lavoro numero undici di Ariel Pink, in una sequenza di immagini a doppio senso, in cui i riferimenti al bel mondo vengono sovrapposti all'infantilismo giocoso e semi-dionisiaco del girogirotondo del chorus. È un infantilismo tutto diverso però, quello di “Plastic Raincoats In The Pig Parade”, non il tipico baccanale lo-fi cui il nostro ci aveva largamente abituati, ma un brano con gusto e struttra, di una dolcezza straniata e complessa più vicina alle gioie circensi di un Kevin Ayers. Ma soprattutto annuncia senza troppi preamboli come “Pom Pom” sia un disco in cui nulla è lasciato al caso, dagli stop&go ai carillon, ogni elemento è misurato con accortezza, con una produzione che per la prima volta si fa oculata e muscolare. Anche l'eterogeneità stilistica, altro tratto irrinunciabile dell'universo Pink, viene mantenuta in una visione d'insieme più omogenea e calibrata.
Così non stupisce quando, appena il tempo di una giravolta, Mister Pink si tramuta con disinvoltura in crooner proto-new wave per “White Freckles” e titano romantic-prog per “Four Shadows”, menestrello indie-naive sul singolo “Put Your Number In My Phone”, ma anche interprete di jingle formato carosello (“Sexual Athletics”) o western saloon (“Nude Beach A G-Go”). I diciassette pezzi scorrono sicuri, dritti e senza sbavature, quasi con la consapevolezza di partecipare ad un corpus mai così unitario.
Ma è nel formato più orientato al synth-wave, territori bazzicati fin dal celebre “Before Today”, che Ariel sfodera i veri capolavori. A partire dalla desolante bellezza di “Lipstick”, esistenzialismo col make up che risuona di Ottanta est-europei, la carnalità hardcore – in più di un senso – di “Not Enough Violence” (“Providence of angels and fairymen/ Here after all's well and said and done/ What's the view like from your bed/ Where a handful of love goes down where you got fed/ Now it's time for pain – That's right/ Penetration time tonight”) fino all'irriverente “Black Ballerina”, contrappuntata di synth cybernetici e bordelli in stato di post-decadenza spiati dal buco della serratura (“Pardon Mrs. Dolly Parton/ Condoleezza, turn me on/ Bet your bottom, Dolly/ Wrapped in dollars all I gots to spend”).
Input, segnali e rimandi che vanno a costituire quello che è di fatto finora l'atto di fede più evidente consegnato dal nostro all'altare dello zappanesimo, espresso a ben vedere su tutta la durata dell'album e sublimato nei brillanti freak satirici di “Jell-o”, “Sexual Athletics”, “Goth Bomb” (peraltro con un binario di cori e wall chitarristico parente delle Mothers Of Invention), ma anche nella collezione di consunti cliché all'americana di “One Summer Night”.
Simboli, stereotipi, miti di una civiltà che non ha mantenuto le sue promesse, che nel suo lungo tramonto ha sparpagliato cocci, insicurezze e plastica rosa, in un abbandono di cui, come ci ricordava un Ariel insolitamente schietto, “siamo tutti vittime” e che solo i più brillanti tra gli alienati sono ancora in grado di riciclare in poesia.
“Pom Pom” è probabilmente il disco più robusto ad oggi rilasciato da Ariel Ronsenberg, splendidamente arrangiato e liricamente ficcante, parto di un adorabile visionario che sa prendere e prendersi in giro, ancora intimamente incerto se giocare con le pistole d'acqua o provare a camminare nei tacco dodici.
“Il mio progetto di vita è di sistemarmi e diventare adulto, avere dei figli, sono già trentasei, baby”. In amicizia, caro Ariel, è l'ultima cosa che ci sentiremmo di augurarti.
01/11/2014