Beverlywood, 1988. Ariel Rosenberg è un bambinetto di appena 10 anni, dotato di grande talento nel disegno e cantautore in erba che già inizia a cimentarsi con la stesura delle sue prime canzoncine. Ariel, come molti della sua generazione, ha avuto una baby-sitter molto speciale, la televisione; cresce così, restando per ore a bocca aperta davanti ai video di Mtv. Non si perde una puntata di “Miami Vice”, dell’“A-Team” e guarda le repliche mattutine dei “Chips” quando marina la scuola, rimanendo incantato da ogni réclame ci capiti in mezzo. Da buon appassionato di musica alle prime armi è sempre alla ricerca di materiale sonoro. Andando a rovistare tra gli scatoloni impolverati, trova i vinili logori dei genitori, più che altro pop d’annata e successi consumati acquistati per pochi dollari; dischi che, sebbene in pessimo stato, lo appassioneranno in breve tempo.
Pochi anni dopo, tra una partita arcade e l’altra, immagino Ariel e i suoi amici ritrovarsi abitualmente in sala giochi per scambiare le copie sovraincise delle cassette acquistate dai fratelli maggiori; oppure cercando di barattare con un nuovo film, quel vhs di “Beverly Hills Cop” piratato dal videonoleggio, duplicato e riduplicato da mezza scuola fino a storpiarlo talmente da rendere la faccia di Eddie Murphy e la celebre theme song appena riconoscibili.
YouTube, 2008. Un tipo bizzarro si aggira per le strade di Beverly Hills ripreso in video paradossali e sgranati che sembrano usciti da un filmino di famiglia di vent’anni prima, cazzeggiando su canzoncine pop con un gusto retrò.
Per molti non è altro che la caricatura di un mondo bislacco, ma dietro quell’aria assente si nasconde proprio Ariel, quel ragazzino cresciuto negli anni 80, romanticamente attaccato ai suoi sogni e ai suoi ricordi. Ora Ariel è adulto e sfoga tutta la sua espressività su un registratore da quattro soldi; si fa chiamare Pink, Ariel Pink… effettivamente è proprio un nome da cartone animato, forse non è poi cresciuto così tanto. Rinchiuso in casa per anni, registrando una quantità mostruosa di tapes creati per sé stesso e raccolte mai rilasciate, Ariel Pink è diventato una vera leggenda nell’underground californiano e uno dei più affascinanti outsider degli ultimi anni, nonché primo ispiratore delle sonorità glo-fi.
I Noughties sono stati il decennio della “retromania”: scovare i vecchi sound e le tendenze dal passato che possano avere un appeal anche sul presente. Un fenomeno alimentato e facilitato dall’mp3, dal download digitale e dagli archivi musicali online. Con Ariel Pink questo fenomeno smette di essere un fine e inizia a diventare un mezzo, uno strumento per “creare qualcosa che nessun altro possa fare” e tutelare un patrimonio dimenticato.
Per Ariel tutta la musica, poiché registrata, fa parte del presente; senza ispirarsi a un genere particolare, l’obiettivo di Pink è “fare le cose che mi piacciono, e quello che mi piace sono le cose che non sento”. L’antologia discografica diventa una materia prima da riassemblare in un bricolage musicale, arraffando qua e là ogni sorta di input radio-friendly passato per il Sunset Strip e per i palinsesti americani nei 50 anni precedenti.
I padri spirituali, inconsapevolmente o meno, del percorso “hauntologico” di Pink sono tre tra le personalità più eccentriche e arcane della cultura pop. Un filo conduttore viene tracciato tra le atmosfere stralunate di Joe Meek, pioniere dell’era spaziale, e la novelty del padrino del nonsense demenziale, Spike Jones; ereditando sopra ogni altra cosa l’attitudine weird di R. Stevie Moore, outsider e veterano dell’home recording, famoso per la sterminata produzione autonoma e i video casalinghi.
Ariel Pink gioca a imbastire detriti demodé su sporcizie lo-fi, rimescolati in una miscellanea “zappiana” di interferenze radiofoniche che ripercorrono pagine patinate, impolverate e sbiadite del tempo. Brandelli di melodia vengono raccattati dalle soundtrack hollywoodiane dei blockbuster movie e dai polizieschi dell’epoca reaganiana, setacciati dalla memoria pre-adolescenziale.
Rubando temi sunshine da dischi ormai deformati dagli anni e i motivetti dei girl group marchiati Philles Records, scavando in ogni sorta di deiezione artistica, dalle scorie dell’italo-disco allo yacht rock in voga tra gli yuppies, Pink si diverte a rievocare qualcosa di morto, estinto, che vorrebbe conservare in un “bric à brac” sonoro.
Cogliendo spunti da ogni era musicale toccata dall’età dell’oro delle case discografiche, epoca di produzioni pop su larga scala, Pink incanala un eclettico repertorio kitsch di “retrolizie” dimenticate in un clima ipnagogico e trasognato, stravagante e grottesco, infettandolo con suggestioni prese in prestito dalle alterazioni analogiche, dalle voci suadenti degli speaker radiofonici e dai videogiochi a 8 bit.
Dotato di un talento melodico degno di Brian Wilson, abilmente Pink è riuscito a riassumere il tutto in un sound fantasma, ultra riverberato, basato su un nuovo concetto di psichedelia fatta di dolci allucinazioni, di reminescenze fanciullesche e insonnie notturne davanti allo schermo, di sogni ripescati in una discarica di gingilli pop, canzonette da karaoke, jingle pubblicitari e zuccherosi ritornelli bubblegum, riciclati su mangianastri ed economiche apparecchiature vintage.
Ariel Pink, in barba al business discografico, sfrutta tutto l’easy listening più trash mai creato, riducendolo a un’eterea nebulosa rosa, per dargli l’aspetto dell’esperienza trascendentale della net generation. Effimera, impalpabile e analogicamente sporcata, è una fascinazione artificiale indotta da un’adolescenza trascorsa all’insegna del tubo catodico e del walkman.
Ariel Pink, con i suoi Haunted Graffiti, si candida così a essere una figura chiave del decennio 2010, avendo in larga parte contribuito a dar vita alla chillwave, una delle correnti più interessanti apparse nel panorama musicale da inizio millennio. Il suo percorso è una giungla intricata di registrazione casalinghe, ristampe, pubblicazioni postume e distribuzioni underground, quindi per capirci qualcosa andremo in ordine di registrazione.
Ariel Rosenberg: Pre
Siamo nei primi anni 90, Ariel Rosenberg è un eccentrico adolescente di Beverly Hills, appassionato di gothic-rock e fan di band come Sisters Of Mercy, Bauhaus, Christian Death e Cure; a dirla tutta non proprio quello che ci si aspetta da un liceale californiano in pieno periodo grunge. Nel 1996, armato di mangianastri inizia a registrare canzoni su cassetta e dopo essersi diplomato alla Beverly Hills High School si iscrive al California Institute of Art di Santa Clarita, dove continuerà la sua opera compositiva. Due anni più tardi metterà su nastro le incisioni che prenderanno il titolo di Ariel Rosenberg’s Thrash And Burn: Pre (Human Ear Music, 2006). La raccolta si snoda in un clima ovattato, influenzata particolarmente dai themes di Jan Hammer (come per gran parte della sua carriera), dal Bowie “berlinese” e da Lou Reed, nonché dagli esperimenti elettronici di LaMonte Young (più per attitudine a “provare” che per passione nei confronti dell’artista). Nelle registrazioni, ancora molto approssimative, si può persino sentire, oltre al suo tipico human beatbox, il rumore dei tasti del registratore e il respiro di Ariel tra suoni scarni e rumori di sottofondo.
Con l’avanzare dei brani sembra più di trovarsi davanti a un’esercitazione che a vere e proprie canzoni. Non mancano comunque autentiche chicche, come il groove crepuscolare di “Disco MIA AKA Bust A Move” o il loop orientaleggiante di “Pleasure Spot 1 (Sweet Jane Rock’n’roll)”, probabilmente rubato da un jingle che ricorda i Popol Vuh più esotici, montato su un vocalizzo dove Pink abbozza una cover di “Sweet Jane” (Velvet Underground). Altro omaggio al passato si può trovare nello spoglio country-rock di “On The Beach”, dove si cela la storpiatura di “Sugar On My Tongue” (Talking Heads), che pare uscita dall’omonimo album di Neil Young. Preludio ai climi ipnagogici sono le lunghe prove sperimentali di “Cemetary Suite”, “Cry Yourself To Sleep (12 Minute Overture)”, “Rainy Den” e la gracchiante “Red Vynil”.
The Haunted Graffiti series
Haunted Graffiti 1: Rosenberg, adottando lo pseudonimo di Ariel Pink, tra il settembre 1998 e il febbraio 1999 incide le tracce che andranno a formare Underground (Vynil International, 2007), il primo album della “Haunted Graffiti series”; un disco più adulto e melodico del precedente, fondato su sonorità sixties e roots. Dopo l’attacco non troppo felice di “Shaven”, parte l’infuocato psych-rock di “Spires In The Snow”, in bilico tra Beatles e Red Crayola, tra i pezzi meglio riusciti, oltre al blues-punk di “Ghost Town”, su cui aleggia lo spettro di Jeffrey Lee Pierce, e alla ballata Young-iana della title track. Uniche eccezioni allo spirito dell’Lp restano il glam di “Auto Vanity” e la sorda parodia di Elvis Presley in “Crusades”, che introducono elementi anni 70 e novelty.
Haunted Graffiti 2: Pink, sempre nel 1999 porta a termine i nastri successivamente raccolti in The Doldrums (Paw Tracks, 2004), rilasciati indipendentemente nel 2000. Un album oscuro e malinconico, nel quale l’attenzione viene spostata verso il periodo a cavallo tra gli anni 70 e 80. Mentre si ascolta l’album sì ha l’impressione di passare una solitaria nottata estiva di zapping tra repliche e vecchie hit parade, in un costante stato di dormiveglia. Un’atmosfera soffusa e misteriosa percorre il disco in una costante escalation di capolavori iniziata da “God Kids Make Bad Grown Ups” e “Strange Fires”, tracce sinistre intervallate da falsetti stile Bee Gees poi riproposti in “Among Dreams”, un motivetto che sembra uscito da “Breakfast in America”.
“La Malinconia” continua l’ Hi-NRG di “For Kate I Wait” e la notturna “Ballad of Bobby Pyn” (in onore di Darby Crash), prove commoventi con tanto di effetti electro alla Giorgio Moroder, riprodotti “artigianalmente” da Pink con la propria voce. Una sorta di trilogia dreamy è composta da “Envelopes Another Day”, “Young Pilot Astray” e “Grey Sunset”; quest’ultima sarà la prima traccia di Pink a essere accompagnata da un video, diretto da Travis Peterson nel 2008, dove si può vedere Ariel, vestito da donna, atteggiarsi ironicamente da popstar anni 80.
Haunted Graffiti 3/4: Tra il settembre 2000 e il luglio 2001 Pink dà vita alla terza e alla quarta puntata degli Haunterd Graffiti con Scared Famous (Human Ear Music, 2007) e FF>> (indipendent release, 2002), pubblicati indipendentemente come doppio nel 2002.
In Scared Famous, ristampato e pubblicato nel 2007 (con una differente tracklist), la malinconia lascia spazio alle freak-erie e ai bubblegum; qui Pink trova ispirazione compositiva in artisti come Residents e Frank Zappa. Interessanti climi esotici aprono la prima parte del doppio Lp con “Gocapulco”, canzonetta da spot anni 50 per destinazioni tropicali, ritrovati poi negli ipnotici ambienti hawaiani di “The Kitchen Club”. Un album dalle influenze poliedriche, dove Pink riesuma e deforma il disco-funk di K.C. & The Sunshine Band e Kool and the Gang in tracce come “Howling At The Moon” e “Jesus Christ Come To Me In A Dream”, oltre ai momenti glam di “Talking All The Time”, “Scared Famous” e “Why I Can’t Be Me”, lasciandosi spesso prendere la mano con i falsetti.
Svettano soprattutto la magica danza di "Baby Comes Around", fiaccata da saliscendi e intrusioni vocali e da riverberi rumorosi sullo sfondo, il lungo, elaborato barocco di “In A Tomb All Your Own” e il delirio sincopato per videogiochi “Are You Going To Look After My Boys?”; pezzo seguito da un filmato di Eric Fensler dove troviamo un pacchianissimo Ariel che sfoggia goliardicamente una maglietta dei New York Dolls e degli occhiali disco senza una lente. Un altro videoclip viene prodotto per lo zuccheroso pseudo-duetto “Politely Declined”, dove Pink è intento a evitare la corte di una ragazza innamorata al luna-park.
Nella seconda parte dell’album, dove compaiono anche tributi all’alternative-rock, troviamo “My Molly”, riferimento ai Vaselines, l’hardcore punk smorzato dalla voce di un dj in “Victor” e il lo-fi Johnston-iano per bambini di “One More Time”.
Haunted Graffiti 5: House Arrest (Paw Tracks, 2006) registrato tra l’ottobre 2001 e luglio 2002 torna ai Sixties, al rock psichedelico e al sunshine pop. A farla da padroni in questo disco sono gruppi come Monkees, Turtles e Jefferson Airplane. Si parte con “Hardcore Pops Are Fun”, un inno Lennon-iano alla musica pop, si prosegue con le strofe smielate di “Interesting Results” e con la sarcastica ballata “West Coast Calamities”, nella quale Pink si presenta come il mostro di mare Davy Jones.
I ritmi finiscono per infervorarsi grazie al rock’n’roll di “Baby Comes Around” e al folk-rock di “Every Night I Die At Miyagis”. Dopo la title track i collage musicali si fanno più fitti e impercettibili lasciando spazio a fusioni tra generi e annate. “Alisa” è incalzata da un ritornello senza tempo (“You’re in my heart/ you’re in my dreams/ you’re in my soul”), mentre “Ocean Of Weep” ricorda qualche pomposo pezzo Aor dilatato e filtrato una parete, dal quale improvvisamente spunta l’eco di “Everybody’s Talking” (Fred Neil) e “Abraham, Martin And John” (Dion).
In chiusura si può trovare una sorta di originale quanto improbabile Donovan in salsa new wave nella lunga e variegata “Netherlands”, seguita da “Higher And Higher”, traccia conclusiva che mischia fantasiosamente “vecchia onda” e “nuova onda”.
Haunted Graffiti 6: originariamente pubblicato come doppio insieme a House Arrest nel 2002, Lover Boy (Ballbearings Pinantas, 2006) presenta una profonda immersione nei seventies, dal funk al power pop, dalla disco music alla new wave. L’album fa perno su tracce come “One On One”, “Poultry Head”, “Lover Boy”, “Let’s Get Marry Tonight” e “Ghost” che danno l’impressione di avere a che fare con una creatura ibrida, che mescola ritmi da discoteca e un funk-punk à-la Gang Of Four.
Altri punti forti di Lover Boy sono gli esperimenti electro analogici di “Pheobus Palast”, “Blue Straws” e il chillout funky di “New Trumpet Of Time”, dove riemergono gli ambienti sonori di Brian Eno.
“Credit” e “Older Than Her Years” sembrano uscite dai nastri danneggiati di qualche singolo dei Village People o dei Boney M, mentre tracce del power pop chiltoniano e dei Raspberries riaffiorano in episodi come “Jonanthan’s Halo”, “Hobbie’s Galore”, “I Don’t Need Enemies” e nella distorta “Doggone (Shegone)”.
Haunted Graffiti 7: Holy Shit (indipendent release, 2003) è un Ep senza troppe pretese, dove troviamo canzoni già presenti in altri album e qualche pezzo non troppo fortunato. Le svariate tracce untitled sono sostanzialmente dei giochi di rumori riprodotti analogicamente da Pink, che spesso durano meno di 5 secondi.
Haunted Graffiti 8: registrato tra il settembre 2002 e il febbraio 2003, Worn Copy (Rhystop, 2003/Paw Tracks, 2005) è un disco adulto, che spesso risente di un apporto tecnico non proprio all’altezza. Pink, con la sua “copia logora”, ha ormai le idee chiare sul risultato che vuole ottenere: le influenze sono spesso amalgamate al punto da creare veri e propri crossover, o appiccicate in collage musicali. L’album è quindi un lavoro incentrato più sul metodo compositivo che sulla forma-canzone in sé, prendendo spesso spunto dall’opera degli Ween per ottenere il risultato.
Le atmosfere di The Doldrums sono rievocate da “The Drummer”, “Oblivious Peninsula” e “Crybaby”, mentre “Cable Access Follies” e “Creepshow” hanno un che di funkadelico. Fantasiosi collage vengono proposti in “Trepanted Earth” (suddivisa in 3 movimenti), “Somewhere In Europe/Hotpink!”, “Foilly Foibles/GOLD”, e notevoli momenti di mix creativo emergono in “Bloody! (Begoria)”, “Threspian City” e “Jagged Carinval Tour”.
“Immune To Emotions” e “Artifact” sono il perfetto impasto tra Sixties ed Eighties, intermezzati da un ritornello francese nel glam-rock di “Jules Lost His Jewels”. Momento topico dell’album e capolavoro personale di Pink è la malinconica “Life In L.A.”, storia di un’alienante Los Angeles suburbana raccontata nel video di Nicolas Amato girato a Beverly Hills nel 2004, dove Ariel vaga per il quartiere/zoo come un assonnato “tarzan” metropolitano, suonando trombette di carta.
Paw Tracks
Nell’estate del 2003 Pink vanta ormai un repertorio con più di 500 canzoni, un’infinità di nastri mai rilasciati ufficialmente e parecchie collaborazioni alle spalle. Un’occasione di ribalta si presenta per lui a un concerto degli Animal Collective, dove viene presentato dal comune amico Jimi Hey alla band di New York che, pochi mesi prima, aveva fondato la propria etichetta personale: la Paw Tracks. Pink, inconsapevole dei nuovi progetti del collettivo animale passa loro un cd-r con le registrazioni di The Doldrums, al tempo già vecchie di 4 anni (probabilmente il suo preferito, come biasimarlo?). La band ne rimane colpita e ricontatterà Pink parecchie settimane dopo per proporgli un contratto; da lì a poco diventerà il primo musicista sotto la Paw Tracks.
Fresco di contratto con la nuova etichetta, Pink pubblica la nuova edizione di The Doldrums nel 2004, mentre l’anno successivo sarà la volta di Worn Copy e House Arrest. Per il losangelino arriva finalmente una certa notorietà, grazie anche al mistero che si cela dietro questo personaggio: la maggior parte delle canzoni, infatti, sono del tutto sconosciute ai suoi fan.
Con la Paw Tracks e una timida fama arrivano i primi tour, che trovano Ariel del tutto impreparato, più che altro per l’incompatibilità della sua musica con la performance dal vivo. I primi live, basati su tracce pre-registrate, non raccolgono grande consenso tra il pubblico. Successivamente Pink inizia a servirsi di musicisti per le sue esibizioni, finché nel 2008 trova la formazione definitiva con l’amico Jimi Hey, il tastierista Kenny Gilmore e il chitarrista Cole M.G.N. fondando così gli Haunted Graffiti.
4AD
Diventato ormai un nome noto del “sottosuolo” americano, Ariel è rimasto per troppi anni musicalmente ancorato a cassette rieditare in Lp acusticamente scadenti: gli servirebbe una svolta. L’interesse per Ariel Pink e i suoi Haunted Graffiti arriva (finalmente) da oltre oceano e nel novembre 2009 giunge la firma con la celebre etichetta indipendente 4AD Records, antesignana del dream-pop (Cocteau Twins su tutti) e nome storico dell’alternative rock, fondata nel 1979 da Ivo Watts-Russell, ideatore del super-gruppo ethereal This Mortal Coil.
Dopo anni passati a comporre su un multitraccia a 8 piste, con il passaggio alla 4AD, Pink inizia ad adoperare uno studio di registrazione e un vero e proprio staff di musicisti a supporto per incidere i brani, dando alla sua musica una fattura professionale e una bassa fedeltà digitale. Un po’ di magia analogica viene persa per strada, ma la creatività resta intatta; per Ariel i nuovi lavori sono visti come una versione “condensata, più concentrata” delle sue vecchie registrazioni.
Before Today (4AD, 2010). Il 26 aprile 2010 viene rilasciato “Round Round”, il primo singolo di Ariel Pink con la 4AD, un gran pezzo pop, accompagnato da un video ipnotico girato da Wayne Coyne dei Flaming Lips con il suo iPhone.
Pubblicato l’8 giugno 2010, l’album è un barocco pastiche di camaleontico mimetismo para-zappiano, all'insegna di un bubblegum-pop filante e appiccicoso, infarcito di melodie glassate usa e getta, teso fra Joe Meek, Prince, i Fleetwood Mac e Phil Spector perso in una discarica di plastiche sonore usurate dal più strenuo consumo.
Con il suo approccio dadaista e mutaforma, nutrito di arte povera ed enciclopedico ingegno, Ariel Pink finisce con il controfirmare un signor disco pop, ipnotico e ubriacante. Innumerevoli i riferimenti al passato, dalla psichedelia in odore di prog di "L'estat..." a cover formidabili come “Reminiscences”, pop etiope risalente al periodo comunista dittatoriale del Derg, e una versione esplosiva di “Bright Lit Blue Skies” dei Rockin’ Ramroads. La canzone è supportata da un filmato carico di arie sixties da spiaggia, dove Pink e la band irrompono in un collegio femminile a bordo di un “cavallo di troia” fatto di cartone.
Non mancano ancora una volta stravaganze, ironia e approcci dadaisti, soprattutto nella furia chitarristica di “Butt-Hourse Blondies” e "Little Wig", ma anche nella parodia “transessuale” di “Menopause Man” e nel post-disco di “Beverly Kills”.
Dopo anni di gavetta Pink riesce a ottenere il meritato successo di critica e pubblico, con un 163° posto su Billboard e recensioni positive su svariate webzine. Before Today segna l'ascesa di un nuovo messia del miracolo-truffa del pop, un po' Houdini, un po' Arcimboldo, un po' (anzi molto!) Todd Rundgren, maestro del bricolage fai da te e cervellotico dispensatore di enigmi circolari senza soluzione.
Due anni dopo, è la volta di Mature Themes (4AD, 2012). Con il nuovo singolo “Only in My Dreams”, in streaming dal 9 luglio 2012, ritroviamo su YouTube un Ariel Pink versione latin lover, con una stravagante capigliatura rosa “big babol”, che sogna di ammiccare goffamente con ogni ragazza gli capiti a tiro. Il 20 agosto 2012 ci porta un album che non delude le aspettative, capace di rinnovarsi dal debutto in studio, mantenendo l’impronta naïf.
La caratteristica tipica del Pink made in 4AD è proprio l’armonia: le note datate vengono ricombinate, ripulite della vecchia polvere stantia depositatasi con gli anni ed è come se i vecchi successi suonassero, a livello inconscio, così come vorremmo sentirli nei 2010’s.
Si parte forte con “Kinski Assassin” e “Mature Themes”, due canzoni che ripercorrono i temi sixties di House Arrest, seppur con una produzione sensibilmente più pulita e controllata. Addentrandosi nella tracklist, un susseguirsi di miscele pop culture rivisita tutti i trascorsi di Ariel: dall’incandescente intro di “Is This The Best Spot?” (poco più di un divertissement fricchettone dal piglio punk) passando per lo scintillante psych-pop di "Only In My Dreams", la caleidoscopica “Driftwood” e il demenziale ritornello pop di “Symphony Of The Nymph”, fino alla caricatura italo-disco di “Pink Slime”, con tanto di voci in italiano.
I mille volti che assume Ariel Pink lungo le tredici tracce arrivano in verità ancora una volta dall'America di periferia, da karaoke, vecchi road movie e stupefacenti da pochi spiccioli; brutta copia di quanto accade nella grande città e che arriva filtrato dai media. Il musicista si muove ubriaco in tutto questo senza più capire se la sua è interpretazione, parodia zappiana o semplicemente abbandono incondizionato allo stato delle cose. L'estasi di "Nostradamus And Me" e la cover blues da locale fatiscente di "Baby" (Donnie and Joe Emerson), paiono suggerire l'ultima opzione. Ma anche in questa prova di (quasi) maturità, in cui passato prossimo e remoto dell'artista sperimentano una sintesi definitiva, Ariel Pink riesce nell'impresa di lanciare il sasso e nascondere la mano, di sottrarsi ad ogni tentativo di essere fossilizzato in una forma limpida e trasparente.
Nei due anni che separano Mature Themes dal suo successore, intanto, non ci si annoia di certo. Ariel riceve una proposta di collaborazione nientemeno che dall'entourage-potëmkin di una certa signora Ciccone, offerta che il nostro rifiuta senza risparmiarsi critiche accese al modo di operare della fu material girl: "Hanno improvvisamente bisogno di qualcosa di audace, hanno bisogno di songwriting. Non possono permettersi l'ennesima techno-jam del suo Avicii o vattelappesca per rodarla un'altra volta e fare finta che sia vent'anni più giovane. In realtà hanno bisogno di canzoni. E forse sono in parte responsabile per questa specie di ritorno in auge". Le dichiarazioni di Rosenberg scatenano prevedibilmente il web, in particolare l'inviperito zoccolo duro dei seguaci della Ciccone che, dal canto suo, si affretterà a rinnegare ogni cosa, smentendo ogni volontà a collaborare con delle "sirenette".
Eppure, tra le righe del gossip, delle mezze dichiarazioni, degli sguardi, si intuisce come questa volta al fondo di tutto Ariel Pink abbia mantenuto il fioretto e che il cazzone di appena qualche anno fa stia lentamente sfumando per davvero in una personalità più definita e a fuoco, quasi “consapevole” ma non per questo meno fragile o cinicamente melanconica. Ma andiamo per gradi ed entriamo nel merito di un disco che per titolo fa pur sempre Pom Pom.
Si apre con una sfilata di maialini rosa e impermeabili di plastica, il lavoro numero undici di Ariel Pink, in una sequenza di immagini a doppio senso, in cui i riferimenti al bel mondo vengono sovrapposti all'infantilismo giocoso e semi-dionisiaco del girogirotondo del chorus. È un infantilismo tutto diverso però, quello di “Plastic Raincoats In The Pig Parade”, non il tipico baccanale lo-fi cui il nostro ci aveva largamente abituati, ma un brano con gusto e struttra, di una dolcezza straniata e complessa più vicina alle gioie circensi di un Kevin Ayers. Ma soprattutto annuncia senza troppi preamboli come Pom Pom sia un disco in cui nulla è lasciato al caso, dagli stop&go ai carillon, ogni elemento è misurato con accortezza, con una produzione che per la prima volta si fa oculata e muscolare. Anche l'eterogeneità stilistica, altro tratto irrinunciabile dell'universo Pink, viene mantenuta in una visione d'insieme più omogenea e calibrata.
Ma è nel formato più orientato al synth-wave, territori bazzicati fin dal celebre Before Today, che Ariel sfodera i veri capolavori. A partire dalla desolante bellezza di “Lipstick”, esistenzialismo col make up che risuona di Ottanta est-europei, la carnalità hardcore – in più di un senso – di “Not Enough Violence” (“Providence of angels and fairymen/ Here after all's well and said and done/ What's the view like from your bed/ Where a handful of love goes down where you got fed/ Now it's time for pain – That's right/ Penetration time tonight”) fino all'irriverente “Black Ballerina”, contrappuntata di synth cybernetici e bordelli in stato di post-decadenza spiati dal buco della serratura (“Pardon Mrs. Dolly Parton/ Condoleezza, turn me on/ Bet your bottom, Dolly/ Wrapped in dollars all I gots to spend”).
Input, segnali e rimandi che vanno a costituire quello che è di fatto finora l'atto di fede più evidente consegnato dal nostro all'altare dello zappanesimo, espresso a ben vedere su tutta la durata dell'album e sublimato nei brillanti freak satirici di “Jell-o”, “Sexual Athletics”, “Goth Bomb” (peraltro con un binario di cori e wall chitarristico parente delle Mothers Of Invention), ma anche nella collezione di consunti cliché all'americana di “One Summer Night”.
Simboli, stereotipi, miti di una civiltà che non ha mantenuto le sue promesse, che nel suo lungo tramonto ha sparpagliato cocci, insicurezze e plastica rosa, in un abbandono di cui, come ci ricordava un Ariel insolitamente schietto, “siamo tutti vittime” e che solo i più brillanti tra gli alienati sono ancora in grado di riciclare in poesia.
Come dice in un suo articolo (reperibile con il titolo "Figli di Madre Natura" nel volume antologico "Hip-Hop-Rock", edito da Isbn) il sempre perspicace Simon Reynolds, i dischi di Ariel Pink danno quasi sempre la bizzarra sensazione di ascoltare il palinsesto bruciacchiato e gracchiante di una radiolina mainstream che risuona dal fondo incrostato di una qualche piscina americana: bollicine di suono sfatto e gorgogliante che vanno a ricomporre l'immagine sfranta di un mutevole trash-pop in infima fedeltà. Una musica-fantasma, che si riplasma e contorce, a metà tra il sogno e la rimembranza, in un'estasi totalizzante di forme bislacche, fino a risalire in superficie ed evaporare in un artificio volatilizzato.
L'ennesimo cambio di scuderia, con il passaggio alla Mexican Summer, segna un'altra inversione di rotta per il ragazzo di Beverlywood, inaugurando un nuovo corso dove l’esuberanza corrente non collima inevitabilmente con l’abbondanza degli esordi, ripristinando in parte toni più oscuri e lo-fi.
Dedicated To Bobby Jameson (2017) è un disco quasi terapeutico, un omaggio a Bobby Jameson: musicista scoperto da Andrew Loog Oldham che negli anni 60 godette di una momentanea notorietà collaborando con Rolling Stones e Frank Zappa, prima di essere fagocitato da un turbinio di problemi personali (alcol, droghe e vari tentativi si suicidio), per poi ricomparire nel 2007 sorprendendo tutti coloro che lo avevano dato per morto già da anni.
A far da cornice, la solita miscela sonora ricca di raffinate citazioni che mescolano soul, pop, elettronica, new wave, beat e psichedelia con lo stesso spirito pioneristico di una stazione radio pirata degli anni 70 e 80.
Come in una sequenza radiofonica, Dedicated To Bobby Jameson alterna episodi brillanti a tracce leggermente sottotono, tutte comunque funzionali al racconto appassionato della figura di Jameson, ed è in quest’ottica che si riesce a perdonare in parte la minor incisività del progetto. Il vortice armonico della vellutata “Another Weekend”, la provocante sensualità di “Kitchen Witch” e il delizioso refrain del piccolo gioiellino glam “Bubblegum Dreams”, confermano lo stile policromo e originale del musicista, che non dimentica mai di iniettare le sue canzoni di autentica tenerezza (“Do Yourself A Favor”) e passione (“Death Patrol”).
Nostalgia e innocenza continuano a collimare nell’universo di Ariel Pink, il quale spinge ai limiti il suo citazionismo anni 80 coinvolgendo in un sol brano Cure e Psychedelic Furs (“Feel Like Heaven”), scomodando Gary Numan (“Santa’s In The Closet”) e perfino i Buggles di “Video Killed The Radio Star” (“Time To Live ”). Questa volta però prevale un senso di amarezza e disorientamento quasi psicologico, la disillusione è il linguaggio prevalente delle liriche mentre la proverbiale capacità del musicista di catturare melodie ingegnose non è sempre del tutto a fuoco. Oltre alle ovvie tracce di raccordo, che da sempre fanno da collante negli album di Ariel, questa volta ci sono alcuni riempitivi che non aiutano la fruizione, relegando Dedicated To Bobby Jameson a episodio lievemente meno energico della sua discografia. Senza alcun dubbio per un personaggio come Ariel Pink vale la regola del “prendere o lasciare”, ed è quindi naturale che anche un progetto meno innovativo o calibrato non infici il suo profilo artistico, ma è innegabile che questa volta più che rischiare e innovare il musicista abbia preferito consolidare il suo status.
Nel frattempo, si rivela una brutta gatta da pelare l’attesa pubblicazione dei quattro volumi di “Archives”. Scaricato dalla casa discografica Mexican Summer dopo la partecipazione del musicista al raduno pro-Trump del 6 gennaio a Washington Dc, Ariel Pink ha prontamente negato di aver preso parte agli assalti a Capitol Hill, di aver aderito in maniera pacifica e civile alla manifestazione restando sul prato della Casa Bianca e di aver concluso la serata con un pisolino nell’albergo.
Nonostante il chiarimento, dopo la pubblicazione del primo volume Odditties Sodomies Vol. 1 e l’anticipazione del secondo capitolo Sit n 'Spin, la sorte degli altri due album della serie “Archives” (“Odditties Sodomies Vol. 3” e “Scared Famous / FF >>”) è rimasta in sospeso a causa dell’aggravarsi della situazione: l’ex-ragazza di Pink ha sporto denuncia per abusi sessuali. Un evento che ha creato ulteriori e pericolose conseguenze: sono state infatti segnalate minacce di morte rivolte anche ai familiari dell’artista.
Annunciato e distribuito dalla Mexican Summer prima della rottura del rapporto con Pink, “Sit n 'Spin“ non aiuta certo a risollevare le simpatie per il musicista americano, trattandosi di outakke e demo risalenti al periodo creativo più tribolato e incerto, quindi destinato al gaudio dei soli fan, come d'altronde i quattro volumi del progetto.
L’estrosità della title track, l’energia di “Revenge Of The Iceman”, le dissonanze di “In The Force” e l’eccellente cover di “She’s Gone” del gruppo garage-punk dei Dovers sono comunque sufficienti ad archiviare la raccolta come un interessante sguardo nel profondo della musicalità dell'artista americano.
Le registrazioni coprono un periodo di ricerca e di sperimentazione di quella formula che ha poi trovato in dischi come Pom Pom la sua perfetta esegesi creativa, ed è piacevole cogliere quello spirito naif che ne ha poi caratterizzato il percorso artistico. Ciononostante, una raccolta di demo di un artista già dedito per natura a un collage di suoni e idee liriche non è certo il progetto ideale per consolidarne il profilo che, ad onor del vero, risulta ancor più sfilacciato delle ultime produzioni.
Sit n ‘Spin è un disco che fatica a ritrovare la strada dell’ascolto e che si archivia in fretta senza particolari emozioni, rendendo ancor più complessa l'analisi dei prossimi due capitoli della serie "Archives".
Contributi di Ciro Frattini, Francesco Giordani, Roberto Rizzo, Gianfranco Marmoro
ARIEL ROSENBERG | ||
Ariel Rosenberg’s Thrash And Burn: Pre (Human Ear Music, 2006) | 5,5 | |
ARIEL PINK'S HAUNTED GRAFFITI | ||
Underground (Vynil International, 2007) | 6 | |
The Doldrums (Paw Tracks, 2004) | 8 | |
Scared Famous (Human Ear Music, 2007) | 7 | |
FF>> (indipendent release, 2002) | 6 | |
House Arrest (Paw Tracks, 2006) | 6,5 | |
Lover Boy (Ballbearings Pinantas, 2006) | 6,5 | |
Holy Shit (Ep, indipendent release, 2003) | 5 | |
Worn Copy (Rhystop, 2003/Paw Tracks, 2005) | 7,5 | |
Witchhunt Suite For World War III (Melted Mailbox, 2007) | ||
Before Today (4AD, 2010) | 7,5 | |
Mature Themes (4AD, 2012) | 7 | |
Pom Pom (4AD, 2014) | 7,5 | |
Dedicated To Bobby Jameson (Mexican Summer, 2017) | 6,5 | |
Sit n 'Spin (Mexican Summer, 2021) | 5,5 | |
La discografia tiene conto dell'ordine cronologico di produzione del materiale, poi assemblato nei cd |
Artifact | |
Are You Going To Look After My Boys | |
Bright Lit Blues Skies | |
Mistaken Wedding | |
Only In My Dreams |
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