“But it's unsure if it's enough so it's waits for the ghost
For the demon, assassin of God”
Pensieri fervidi, colmi di oscuro malessere, di una rabbia pilotata, di fantasmi mai sconfitti sgorgano dalla mente rotta di
Gary Numan. Avviene da circa tredici anni, ormai. Era il 2000 e il nuovo millennio riservava all'ex-androide, che gli anni avevano reso umano e vulnerabile assieme alla sua musica, l'ingresso in un tunnel che lo avrebbe riportato in alto, libero di battezzare nell'esoterismo di “Pure” una nuova gioventù artistica. Una pelle inedita fatta di un dialogo intrinseco con l'oscurità, una contaminazione suggellata dall'incontro sul palco con quel
Trent Reznor che da sempre aveva venerato i fasti degli indimenticabili “
Replicas” e “The Pleasure Principle”, tanto da rispolverare “Metal” in una cover da mille e una notte.
Il percorso da allora è proseguito senza la concessione del benché minimo calo di tensione: sei anni ci sono voluti per arrivare a “
Jagged”, ovvero il ritorno alla dimensione umanoide, il trionfo di una gelida pece industriale sulle deviazioni del suo predecessore, altri tre per l'introspettiva e meticolosa autoanalisi di “
Dead Son Rising”. Ed è a partire da quest'ultima che “Splinter” germoglia, segnando di fatto la conciliazione tra passato remoto e prossimo, facendo convivere distese nervose di synth analogici, ritornelli killer, asperità industriali e oppressioni interiori. Il tutto riunito sotto il comun denominatore di un Numan che si riscopre cantore di psicodrammi ambientati in una casa infestata da spiriti e fantasmi, quella stessa all'esterno della quale si fa fotografare in versione-
zombie per l'emblematica copertina.
L'uno-due d'apertura è fulmimante quanto sensazionale: a inaugurare il viaggio è l'ingresso al fulmicotone di “I Am Dust”, irresistibile
anthem colmo di scariche che tanto ricordano proprio i
Nine Inch Nails di “
Hesitation Marks”. Una sorta di rituale, suggellato dall'urlo anti-liberatorio del ritornello, dove torna a fare capolino l'innata abilità di Numan nel fabbricare melodie killer. L'incubo della successiva e altrettanto splendida “Here In The Black”, con il suo raggelante retrogusto
doom, segna, assieme al diabolico grido di “Love Hurt Bleed”, la discesa negli inferi, la cui presa di coscienza passa invece per l'impietoso e crudo psicodramma di “Everything Comes Down To This” e per le brulicanti e sinistre visioni di “Where I Can Never Be”.
La carica spettrale raggiunge il suo apice nel terrore sussurrato di “A Shadow Falls On Me”, che arriva a sfiorare da vicinissimo il territorio dei
Ministry, e nella rassegnata tensione cibernetica di “We're The Unforgiven”. Altrove la componente umana si affaccia creando dei veri e propri dissidi tra testa e cuore: è il caso della della nostalgia oscurata di “The Calling”, dell'energico e rabbioso sfogo di “Who Are You” e, soprattutto, del travaglio interiore della meravigliosa
title track, il cui coro liberatorio segna il vertice del pathos dell'intero lavoro. Succede poi che in un'unica occasione la speranza arrivi a sovrastare il dramma: ne esce “Lost”, ballata auto-contemplativa colma di una dolcezza disarmante, a cui la posizione al centro della scaletta dona il ruolo di autentico spartiacque.
La perfetta convivenza, a tratti in armonia e ad altri in contrasto, fra tutto ciò che Gary Numan ha rappresentato e rappresenta per mezzo della sua musica, fa di “Splinter” uno dei dischi migliori della sua carriera, nonché il (temporaneo) punto d'arrivo del percorso che ne ha segnato la rinascita umana e artistica. La capacità di condurre in luoghi malsani e nefasti con quella stessa, glaciale semplicità con cui trent'anni fa scalava le classifiche è il vero elemento in più di queste undici “canzoni da una mente malata”, tale da invogliare, ad ogni ascolto di più, a gettarsi senza timore nelle braccia di demoni e spettri. Sotto la guida di questo inossidabile, novello
cyber-zombie.
02/11/2013