"The Exceptional Joe Meek", "The Amazing World Of Joe Meek", "The Alchemist Of Pop", "Portrait Of A Genius": per una volta, gli iperbolici titoli delle antologie dicono il vero. Come dar loro torto? Joe Meek ha così tanti meriti e primati che si potrebbe liquidare un articolo intero solo elencandoli: il primo produttore indipendente, il primo ingegnere del suono a usare lo studio come uno strumento, il primo concept album, il primo singolo britannico a sfondare la Top 10 Usa, lo strumentale più venduto di sempre e, perché no, anche la prima canzone apertamente gay-themed, per tacere delle innumerevoli innovazioni tecniche che ha introdotto o ha contribuito a perfezionare (incisione multitraccia, overdub, close miking, oltre al rivoluzionario utilizzo di eco e compressore), fino alle pionieristiche visioni elettroniche e ai rudimentali tentativi di campionamento.
Tuttavia, dovendone eleggere uno, il suo contributo più rilevante è di carattere concettuale: è stato il primo genio musicale del tutto incapace di cantare o suonare uno strumento, oltre che analfabeta di teoria e notazione. La sua è stata in tutto e per tutto una carriera da "tecnico", con i tipici step del caso (inizi da riciclatore di componentistica, gavetta radiofonica, esordi come assistente di studio) e una vocazione artigianale retaggio delle sue origini campagnole. Il persecutorio paragone con Phil Spector ha poco senso, se è vero che il suo inconfondibile tocco non nasce dalla sovrapproduzione, ma anzi da una volontaria povertà di mezzi: riverberi naturali, strumentazione scadente, musicisti sfigati e una perversa ostinazione nell'utilizzare il proprio appartamento come sala d'incisione privilegiata. A cavallo tra l'energia ruspante dei 50 e le ambizioni visionarie dei 60, ha bellamente sbeffeggiato i primi e ignorato i secondi. Sarebbe così inappropriato, alla luce di questi elementi, considerarlo un antesignano del punk e del lo-fi?
Come tutti i grandi eccentrici, fu uomo di solenni rifiuti (come quando ingaggiò i Moontrekkers solo a patto che cacciassero tal Rod Stewart, o quando sconsigliò a Brian Epstein di perder tempo dietro a quella band senza futuro), ma per altri versi un oculato talent scout (Ritchie Blackmore, Jimmy Page, David Bowie, Marc Bolan, Steve Howe, Tom Jones, Shirley Bassey, Petula Clark tra i frequentatori della sua Factory) e sicuramente un coach dai metodi poco ortodossi (arrivò a puntare una pistola alla tempia di Mitch Mitchell per ottenere una performance più intensa).
A costo di scadere in un bolso maledettismo, è impossibile inquadrare quella sfrenata fantasia senza fare riferimento alla personalità disastrata che l'ha partorita. Le sue bizzarrie erano un riflesso delle sue ossessioni, la strumentazione di cui si serviva un modo per tenerle a bada. Gli "altri mondi" in cui volava con la mente, dallo spazio cosmico alla vita ultraterrena, erano più che un chiodo fisso: gli effettacci orrorifici con cui infestava le incisioni fungevano da tenero esorcismo per quelle angosce soffocanti. Registrare poteva voler dire di volta in volta comunicare con i defunti, catturare le presenze che lo braccavano o controllare i figuri da cui si sentiva perennemente osservato.
La storia dell'arte trabocca di paranoici cronici, ma pochi possono rivaleggiare con un malessere tanto totalizzante, e ancor meno sono riusciti a tradurlo in un uno sforzo creativo di tale portata. Anche il desiderio affannoso di far suonare in modo differente ogni singola canzone, impegno a cui ha dedicato tanto estro tecnico, non può non essere ricompreso sotto una lente nevrotica. Meek ha rappresentato la quintessenza dell'outsider artist, refrattario ai compromessi per naïvete più che per antagonismo ideologico, incompreso e verosimilmente incomprensibile. Il colpo di grazia, inutile girarci troppo intorno, gliel'ha inferto il tormentato rapporto con la propria omosessualità, pagata a caro prezzo in un'epoca in cui le "pratiche contro la morale" configuravano ancora un reato: perché, dunque, non ricordarlo anche come la prima queer victim del rock?
La prematura scomparsa di Meek è una delle massime tragedie degli anni 60, e non solo per la modalità orrenda con cui ha avuto luogo. Non averlo potuto vedere all'opera in quella golden age impensabile senza le sue prometeiche intuizioni rimane un rimpianto bruciante come pochi. Uno scadente cronista di nera costruirebbe un lungo flashback partendo proprio da quella scena raccapricciante, noi proveremo a essere un po' meno artefatti e un po' più pudichi, imbrigliando la cronologia con più rigore possibile.
Capitolo 1: un blues da due penny
You can tell a Joe Meek record a mile away
(Jello Biafra)
La nostra storia inizia nelle campagne di Newent, nel Gloucestershire, dove il 5 aprile 1929 nasce Robert George Meek (il nomignolo Joe è un tributo a uno zio morto in guerra). In famiglia tira una brutta aria: il padre è un reduce rimasto segnato dall'esperienza bellica, violento e anaffettivo, che morirà a causa di una scheggia di proiettile rimastagli nel cranio; la madre, che voleva una bambina, costringe il piccolo Joe a vestirsi da donna per supplire al desiderio mancato (circostanza, quest'ultima, in seguito fermamente negata dai familiari). I drammi domestici lo portano presto a isolarsi, tramutandosi in un
indoor kid sin dalla più tenera età. Manifesta subito un precoce interesse per la tecnologia, con una curiosità tutta "rurale" per i componenti elettrici, che maneggia come materiali di un'altra civiltà: il cortile di casa sarà perennemente invaso dagli elettrodomestici che si diverte a smontare e riassemblare. A cinque anni gli regalano un grammofono con cui sperimenta "come un piccolo Edison", a nove diventa radioamatore.
Inconsistente ma penetrante come le presenze che iniziano a scorrazzargli in testa, il Suono lo strega: diventa un compagno con cui giocare, un mondo che può plasmare secondo i suoi desideri, ma lo porta anche a trascurare la scuola, che abbandona a quattordici anni per andare a lavorare nella fattoria di famiglia. Due anni dopo diventa tecnico del suono per una compagnia teatrale locale, e nello stesso periodo costruisce pezzo dopo pezzo il primo televisore della regione, inutilizzabile solo perché la zona non è ancora irradiata dal segnale. Durante la leva nell'aviazione ha modo di portare avanti la sua passione prestando servizio come tecnico radar, perfezionando le sue cognizioni tecniche ma dando anche il
la alla sua fissazione per la vita extraterrestre, che tenta di sondare con la sofisticata strumentazione dell'esercito. Tornato in abiti civili, trova lavoro nel reparto riparazioni della Midlands Electricity Board, servendosi delle apparecchiature della compagnia per proseguire le sue sempre più ardite sperimentazioni. La registrazione diventa il suo interesse principale, e la campagna inglese è una miniera di stimoli per la sua fantasia. Si sveglia a orari improbabili per immortalare il canto degli uccelli, creando poi delle complesse stratificazioni con le riprese dei microfoni: senza saperlo, ha appena inventato l'incisione multitraccia, all'epoca inusitata anche negli studi più avanzati. In questo periodo emerge anche la sua incompromissoria indole imprenditoriale: nel 1954 registra la cognata mentre canta "Secret Love" di Doris Day e, oltremodo convinto della bontà del risultato, prova a venderlo autonomamente. Manco a dirlo non riscuote alcun successo, ma l'evento è comunque di grande portata: a quanto è dato sapere, è il primo tentativo di autoproduzione e vendita indipendente nella storia della musica.
Ormai motivato ad avviare una carriera, si trasferisce a Londra. Lavora prima nel negozio di dischi Stones, poi per Radio Luxemburg e infine alla Tvc, comparto televisivo afferente alla prestigiosissima Independent Broadcasting Company. Fa di tutto, tanto e bene, imponendosi in breve tempo come uno degli ingegneri più attivi e richiesti. La sua personalità fin troppo esuberante non viene vista di buon occhio in un ambiente in cui i tecnici devono limitarsi a risolvere problemi: in molti provano a ostacolarlo, ma la sua bravura e ambizione hanno la meglio. Arrivano le primi commissioni importanti: Alyn Ainsworth, Kenny Graham, Frank Holder, il baritono canadese Edmund Hockridge, la pioniera del jazz
all-female Ivy Benson. L'approccio di Meek a queste
session, in cui è in gioco la concreta possibilità di fare un balzo professionale, è a dir poco spericolato: autodidatta cronico che concepisce il suono "come un quadro da dipingere", rinnega qualsiasi procedura standard, si muove solo in base alle sue regole e quando non ne ha ne inventa di nuove, in base alle esigenze del momento. Fa capolino per la prima volta uno dei suoi pallini, l'eco: per enfatizzarla dispone in studio un gran numero di superfici riflettenti, ottenendo un effetto mai sentito prima. Anche sul piano discografico, Joe ha teorie tutte sue, su cui non intende cedere di un millimetro: far incidere uno stesso brano a diversi artisti per massimizzarne il potenziale commerciale è una prassi consolidata, ma lui si rifiuta, fedele alla già chiarissima missione di produrre singoli che siano altrettanti pezzi unici.
Il banco di prova definitivo è datato 1956: Joe è al lavoro insieme a Dennis Preston, pioniere assoluto della produzione indipendente britannica attraverso la Record Supervision Ltd. prima e la Lansdowne poi, con cui sta avviando una partnership purtroppo di breve durata. I due stanno incidendo "Bad Penny Blues" del trombettista jazz Humphrey Lyttelton, che a fine sessione se ne va in vacanza. Non supervisionare un missaggio è all'epoca più che normale, essendo ancora inteso come un mero passaggio tecnico, ma Lyttelton non ha ben capito con chi ha a che fare: indisturbato, Joe abbassa il volume della tromba e dà invece grande risalto alla batteria, imbottendola di riverbero. Di più: giocherella così tanto con le manopole del compressore da distorcere l'ottava bassa del pianoforte, rendendolo lo strumento più presente nel mix. Il risultato è l'esatto opposto di un'incisione jazz convenzionale, che tende a preservare la naturalezza dell'esecuzione e a mettere in primo piano le parti soliste, ma è soprattutto un gesto profondamente iconoclasta: se gli ingegneri del suono sono ancora visti come androidi in camice bianco che eseguono istruzioni senza battere ciglio, l'arrivo di un personaggio che concepisce una canzone come "sua" anziché "incisa da lui" segna un precedente clamoroso e irreversibile.
Anche a livello meramente acustico, lo strappo è profondo: la scelta deliberata di portare i picchi a saturazione, sfondando quel limite considerato sacro e invalicabile, è una ferita da cui il mondo audio non si riprenderà mai. Le porte per il rock moderno (chiassoso, esagerato, strafottente) sono già spalancate, anche se se ne accorgono in pochi. In molti si accorgono invece di quello stranissimo singolo, che finisce dritto dritto nella Top 20: è la prima volta che un brano jazz sale così in alto nella classifica britannica, e il merito è proprio di quel suono così inconsueto e ricco di carattere. Lyttleton, che era andato su tutte le furie per la proditoria manomissione, può ben consolarsi. Tra i tanti a rimanere folgorati da quel glorioso pasticcio vi è un giovane
Paul McCartney: quel pianoforte così aggressivo sarà l'ispirazione per "Lady Madonna".
Nello stesso anno Joe centra il suo primo numero uno in classifica con la versione di Anne Shelton di "Lay Down Your Arms", per cui escogita un altro dei suoi trucchi da stregone: per simulare la marcia di un esercito agita dei sassi in una scatola, manipolandone poi il suono per raggiungere l'effetto che ha in mente. Questo istinto
art brut rimarrà un suo
must e, scusate se è poco, introduce nella musica pop il concetto di sperimentazione di studio. Da lì in avanti, è una tromba d'aria di idee che fanno tabula rasa di qualsiasi principio ritenuto valido: avvicina i microfoni agli strumenti per aumentare la consistenza della ripresa (anni dopo si parlerà di
close miking), incide il basso in linea bypassando l'amplificatore, osa addirittura portare in studio alcuni bizzarri apparecchi autocostruiti. Ma è soprattutto una pratica a segnare l'immaginario di tanti colleghi: se era usanza comune registrare tutti i musicisti con un solo microfono, disponendoli a diversa distanza per ottenere una sorta di pre-mix, Joe preferisce catturare gli strumenti separatamente e ricombinarli solo in un secondo momento, con precisione certosina. L'incisione multitraccia è già una realtà, anche se il resto del mondo ci metterà un po' ad accettarla. Intanto, i malumori dei colleghi aumentano di giorno in giorno e poco aiuta il caratteraccio di Joe, che inizia a manifestare i primissimi sintomi di instabilità: la visionaria decisione di produrre sganciandosi dai circuiti ufficiali sarà di lì a poco una necessità, più che una scelta.
Intanto, non accontentandosi di stare dietro al mixer, decide di cimentarsi anche con la scrittura: nel 1958 la sua "Put A Ring On My Finger" viene portata al successo da Les Paul e Mary Ford. Oltre a essere stonato come una campana e a non avere idea di come si suoni uno strumento, Joe non ha il benché minimo orecchio musicale: la sua peculiarissima modalità compositiva consiste pertanto nel creare delle demo vocali in cui "miagola" sopra ad altri dischi, per poi far trascrivere la musica a un compositore di fiducia. Mai un artista così poco dotato era riuscito a raggiungere traguardi tanto eccelsi.
Capitolo 2: echi da un Mondo NuovoAt first I was going to record it with music that was completely out of this world, but realized that it would have very little entertainment value, so I kept the construction of the music down to earth
(Joe Meek a proposito di "I Hear A New World")
Sempre più mal tollerato e bisognoso di esprimersi, Joe capisce che è il momento di mettersi in proprio. Innanzitutto, trasforma la sua cameretta di Notting Hill in una mini-sala d'incisione, dove di volta in volta invita alcuni musicisti a registrare dei provini, poi rifiniti di notte e in gran segreto nella sala regia di Preston: dati alla mano, è il primo tentativo di
home studio. Una volta realizzati dei
test pressing soddisfacenti, cerca di piazzarli a possibili distributori con scarsi riscontri di vendita, finché nel 1960 "Be Mine" di Lance Fortune fa breccia fino al quarto posto in classifica. Eccitato dall'insolita possibilità di diventare una sorta di venditore porta a porta del proprio materiale, contatta "Major" Wilfred Alonzo Banks della holding SAGA Records, che aveva conosciuto registrando per lui l'attore George Chakiris, e gli propone di diventare socio. Il "Maggiore" non è interessato, ma lo indirizza dal collega William Barrington-Coupe, con cui a febbraio del '60 mette in piedi la Triumph Records: con ogni probabilità, si tratta della prima casa discografica indie di sempre.
La politica su cui si basa è, per l'Inghilterra dell'epoca, rivoluzionaria: produrre musica esplicitamente pensata per i teenager, in un mercato ancora orientato in larga parte verso un pubblico adulto. Lo fa in grande stile: inonda le riviste di annunci e consegna ai negozi di dischi adesivi, foto e quant'altro possa creare sensazione intorno a un artista, dando una spinta decisiva al mercato della musica rock e alla diffusione della cultura giovanile. Nel frattempo, gli esperimenti proseguono imperterriti, facendo sempre più affidamento su macchinari di sua progettazione di cui custodisce gelosamente la meccanica. A volte, ad esempio, sceglie di sostituire la grancassa chiedendo ai musicisti di pestare i piedi per terra all'unisono, immagazzinando il suono risultante per poi modificarlo e riutilizzarlo: di fatto, nasce il campionamento. È solo il piccolo cabotaggio della sua
label a impedire a "Angela Jones", interpretata dal popolare cantante televisivo Michael Cox, di divenire una hit. Meek capisce di dover puntare più in alto e, dopo un periodo in cui dribbla il problema "affittando" la sua musica ad altre etichette, decide di chiudere la Triumph dopo appena un anno di attività. Tempo più che sufficiente per scrivere una pagina fondamentale della musica britannica, e non prima di aver dato alle stampe uno degli album più importanti di tutti i tempi.
Si è detto dell'estrema fascinazione esercitata su Joe dallo spazio con relative forme di vita extraterrestri, che da lacerato outsider vede come presenze amiche e in qualche modo capaci di empatizzare con la sua alienazione. Non ha bisogno di convincersi della loro esistenza perché è sicuro di averli ascoltati durante gli anni in divisa dietro agli schermi radar, e tanto gli basta. Lo sviluppo del programma spaziale e l'euforia fantascientifica di quegli anni lo suggestionano al punto da spingerlo a dire la sua nell'unico linguaggio che gli è congeniale. Traendo spunto dalla suite "The Planets" di Gustav Holst, già nel 1959 inizia a immaginare una "outer space music fantasy" in cui raccontare l'epopea di tre bislacche popolazioni lunari (Dribcots, Globbots e Sarooes), intrecciando la narrazione delle loro gesta alla resa sonora del loro universo. Progetta così un'opera divisa in dodici capitoli, ognuno accompagnato da una ricca nota esplicativa e pensato come un astruso oblò antropologico-musicale su una civiltà sconosciuta. Il lapidario titolo la dice lunga su quanto poco sia scettico riguardo ai suoi simpatici amichetti: "I Hear A New World". C'è una parola ben precisa per descrivere questo modus operandi:
concept album. Nonostante il possibile precedente costituito da "Dust Bowls Ballads" (1940) di
Woody Guthrie, si è ormai generalmente concordi nell'attribuire a Meek il primato. Seppur in sordina, inizia l'era del 33 giri: un paradosso, per l'uomo che snobbava gli Lp a vantaggio dei singoli (unico punto di contatto con il rivale Phil Spector).
Per dare corpo alla sua visione, l'analfamusico contattista ha bisogno di sciamani all'altezza del compito: convoca pertanto un oscuro gruppo skiffle, Rod Freeman e The Blue Men, imboccandolo con le sue strampalate
demo vocali. Sulla copertina, però, campeggerà il suo di nome: è la prima volta che un album è attribuito al produttore anziché all'esecutore. La strumentazione messa in campo salta a pie' pari la classica formazione rock:
steel guitar, piano preparato e soprattutto il fiammante
clavioline, primitivo antenato del sintetizzatore. A farla da padrone, però, sono come sempre i trucchi di Joe, che ricava suoni assurdi dalle fonti più disparate: una radio in interferenza, un circuito elettrico in corto, una bottiglia di latte percossa con un cucchiaino, un pettine strofinato su un posacenere, le bolle generate da una cannuccia, fino al semplice scroscio dell'acqua corrente. Non contento, si accanisce a deformare in ogni modo quella già sbilenca architettura: accelera i nastri per creare uno stridulo effetto da cartone animato (le "voci" degli omini) ed esaspera la compressione per raggiungere una sorta di
clipping costante. Il risultato è incredibilmente
strano: stonato, distorto, sembra la parodia di un disco serio, lo schizzo di un bambino, una diradata visione ipnopomica. "This is a strange record, I meant it to be", dichiarerà, ed è difficile contraddirlo. È un disco "pieno" che per qualche ragione suona "vuoto", il trionfo dell'amatorialità provinciale sulla professionalità urbana, un elogio del rumore come prorompente magma creativo: piaccia o no, nasce il
lo-fi. E se a dettar legge è ancora il mono, Meek ha altro per la testa: per amplificare la sensazione di galleggiare nello spazio profondo, la sua opera dovrà esplorare i recessi della stereofonia, in uno dei primissimi tentativi di "allargare" l'esperienza sonora dell'ascoltatore (confermando anche in questo la sua distanza dall'integralismo
spectoriano). Tutto ciò che era interdetto diventa il suo nuovo verbo, ignorando tutti e ignorato da tutti.
Delle dodici composizioni, tutte strumentali a parte l'iniziale
title track (riletta anni dopo da
Television Personalities e
They Might Be Giants) colpiscono non solo il suono alienato/alienante ma anche la varietà di atmosfere e umori: si passa dalla polka di "Orbit Around The Moon" alla marcetta
Residents-iana di "Entry Of The Globbots", dai numeri da music-hall di "March Of The Dribcots" al vento western di "Magnetic Field", dai languori hawaiani stile Santo & Johnny di "The Bublight" al minuetto astrale di "Disc Dance Of The Globbots", senza trascurare parentesi rumoriste ("Glob Waterfall"), mentre il surf robotico "Dribcots Space Boat" anticipa il cabaret cibernetico di
Bruce Haack e
Silver Apples.
Il momento più
spaziale, in ogni caso, rimangono i due struggenti lentoni dedicati ai Saroos, chiaramente la sua tribù preferita ("Love Dance Of The Saroos" e "Valley Of The Saroos"). Scaraventato oltre la stratosfera, il traballante
jug dei Blue Men si trasforma in una mini-sinfonia liofilizzata, il sogno di un cowboy spedito in orbita a sua insaputa. Prepotentemente cinematografica, è una musica così suggestiva da mettersi in scena senza bisogno di immagini. Lo
space age pop è in un colpo solo codificato e superato da questa folata di ingenuità febbricitante, un perfetto compendio delle tenerissime fantasie dell'epoca.
Joe Meek è il primo
corriere cosmico: con lui finisce la preistoria sperimentale e inizia a tutti gli effetti l'era psichedelica, con cinque anni abbondanti d'anticipo. Il suo Nuovo Mondo è un
Planet Gong a tinte pastello esplorato da una
Sun Ra Akrestra in ammutinamento, con un suono che preconizza una slabbratissima proto-indietronica. Il resto della musica rock ci metterà almeno un decennio per avvicinarsi alla metà di queste intuizioni. Il disco segna anche la prima, aperta manifestazione della bizzarria "esoterica" del produttore, che tra sedute spiritiche e letture di tarocchi è sempre più coinvolto nella sua personalissima interpretazione dell'occultismo. Purtroppo, la sua magnifica ossessione non vedrà la luce: a maggio del '60 uscirà solo un Ep con quattro brani, limitato a 99 copie, da intendersi come
stereo test recording. La seconda parte, pur annunciata e con tanto di copertina, rimarrà nei cassetti. Una delusione che spingerà Meek a seppellire una volta per tutte la Triumph, mentre la band tornerà di lì a breve nell'anonimato da cui era stata pescata. Una ristampa RPM del 1991 stile "director's cut", con tanto di contenuti speciali in cui il protagonista racconta la genesi del disco, farà giustizia: troppo tardi per fare la storia, ma ancora in tempo per riscriverla. Nel 1998 la rivista The Wire inserirà "I Hear A New World" nel listone "100 Records That Set The World On Fire (While No One Was Listening)": mai didascalia fu più appropriata.
Capitolo 3: Johnny e lo spettroIf it sounds right, it is right
(Joe Meek)
Scornato ma non al tappeto, Meek è determinato a portare avanti la sua linea di indipendenza a oltranza e riorganizza le truppe per un assalto meglio meditato. Tornato a Canossa dal "Maggiore" Banks, stavolta riesce a coinvolgerlo direttamente come socio e finanziatore, garantendosi le spalle coperte. Recuperata dell'attrezzatura Bbc di seconda mano, prende in affitto un appartamento di tre piani al 304 di Holloway Road, lo insonorizza personalmente e lancia il suo nuovo marchio discografico: la Rgm (che sta ovviamente per Robert George Meek, a rimarcare la volontà accentratrice). Lo stabile è di proprietà della cuoieria sottostante, con cui si instaura un complesso rapporto di vicinato (quando la musica è troppo forte, la signora Violet Shenton batte sul soffitto con una scopa, e lui per tutta risposta cerca di dare più fastidio piazzando degli altoparlanti alle finestre). Diventerà il suo laboratorio delle meraviglie: ogni stanza viene trasformata in una sala a sé stante per sfruttarne l'ambiente sonoro, e tutte sono collegate attraverso un complicatissimo intrico di cavi facente capo al
panopticon di Meek, che ha così modo di registrare ogni stanza su un canale diverso per poi mixare insieme le diverse riprese. Il suo suono è irriproducibile altrove anche solo perché basato su variabili ai limiti dell'imprevedibile. Per potenziare il fuoco, stringe alleanza con due fuoriclasse che si riveleranno fondamentali: l'arrangiatore Charles Blackwell e soprattutto l'autore Geoff Goddard, con cui tra l'altro scopre di condividere la propensione esoterica. È il primo, compiuto esperimento di autarchia musicale: studio d'incisione ed etichetta diventano un tutt'uno e sotto il controllo della stessa persona. L'industria discografica non vede di buon occhio questa tracotante messa in proprio, e Joe lamenterà continui tentativi di intromissione e finanche sabotaggio: vere o presunte, è l'inizio della discesa nel gorgo paranoico che di lì a poco lo ingoierà. Per adesso, comunque, tutto procede a gonfie vele, e il covo diventa un crocevia di giovani ambiziosi seppur spesso scapestrati, desiderosi anche solo di toccare con mano quel favoleggiato castello incantato: tra essi spicca un infante David Bowie, all'epoca ancora Jones e relegato al ruolo di sassofonista nei Konrads. Nei suoi sette anni di attività, lo studio produrrà ben 600 tracce di 100 artisti diversi; dei 245 singoli lanciati, 45 valicheranno la Top 50.
Il primo è "Tribute To Buddy Holly" (1961), interpretato da Mike Berry: è il primo di una lunga serie di cantanti di dubbio talento, lontani anni luce dalla maschia energia dei patriarchi rock'n'roll ma anche dalla spacconeria degli opliti beat, cavie inermi per le sperimentazioni del Nostro. Sperimentazioni non solo acustiche: sempre più
factotum, cura nel dettaglio tutti gli aspetti promozionali dei suoi assistiti, studiando minuziosamente pettinature e abiti consoni (a Berry e la sua
backing band, i Western All-Stars, impone ad esempio un esilarante
dress code da mandriani). Seppur ancora acerbo rispetto ai capolavori che seguiranno, il brano ha tutte le carte in regola per sfondare, ma viene bandito dalla Bbc in quanto ritenuto "morboso". Di poco rassicurante c'è di sicuro l'ossessione di Meek per il musicista texano del titolo, a cui lo lega una vicenda di lunga data sul filo del paranormale: una settimana prima del "day the music died", Joe ebbe infatti una premonizione in sogno della tragedia, che lo convinse di avere un contatto mentale privilegiato col suo idolo. Lo eleggerà ad autentico spirito guida, "evocandolo" in diverse sedute spiritiche e insanguinando il loro legame con il suo ultimo, drammatico gesto.
L'occasione del riscatto sarà offerta su un piatto d'argento da Goddard, che una mattina di quello stesso anno si sveglia ispirato e incide sul registratore portatile che tiene sul comodino una melodia promettente. Quando la ascolta Meek stravede, la fa arrangiare in fretta e furia da Blackwell e la affida al cantante/attore John Leyton, sua vecchia conoscenza, accompagnato dagli Outlaws. La registrazione, che fisserà una volta per tutte il "metodo Meek", si svolge in un clima scombinato: Leyton incide la voce insieme alla sezione ritmica in una stanza collegata alla regia da uno schermo, mentre il soprano Lissa Gray provvede ai cori dal bagno; i violini sono disposti sulle scale, i fiati direttamente al piano di sotto. Il tutto, come sempre, viene pesantemente alterato in post-produzione da Meek, che accelera il tempo del brano e lo filtra attraverso uno spettrale
spring reverb. Da tanto dispiegamento di forze vien fuori "Johnny Remember Me", che trasforma il caos di quella
session in un punto di forza: sostenuto da una galoppate batteria country, è un agglutinato sonoro tanto astruso quanto compatto, sopra cui duettano come sotto ipnosi il Johnny del titolo, interpretato da Leyton, e la sua amata defunta, cui presta la voce la Gray "dall'oltretomba". È un tipico esempio di
death ditty, la versione pop delle
murder ballad popolari: mini-fotoromanzi in musica che vanno a nozze con il gusto melo-gotico di quegli anni (il caso più famoso è il
girl group statunitense delle Shangri-Las, i cui primi singoli descrivono dettagliatissime tragedie di ogni genere), ma anche con la rinomata necrofilia di Joe, da tempo avvezzo a lugubri passeggiate notturne nei cimiteri (vuoi per raccogliere suoni spaventosi, vuoi per comunicare con qualche dipartito).
La fortuna, una volta tanto, è dalla parte del nostro eroe: Leyton sta per esordire nel popolare spettacolo televisivo "Harpers West One", e quando il suo manager Robert Sitgwood (che diventerà famoso come l'eminenza grigia dietro ai
Bee Gees di "Saturday Night Fever") chiede a Meek una canzone per lo show, gli viene servito il gioiellino appena lucidato. Grazie ai buoni offici di Stigwood il brano va in
heavy rotation e in breve tempo schizza al primo posto in classifica, nonostante l'ennesimo ostracismo della Bbc: glielo aveva predetto Buddy Holly durante l'ultima chiacchierata telepatica, d'altronde. La prova di forza si può considerare stravinta: un singolo prodotto dentro casa per una neonata etichetta ha stracciato commercialmente tutti i concorrenti delle scuderie blasonate. Meek diventa una star, e avrà la lungimiranza di sfruttare il suo enorme potere contrattuale per un ennesimo colpo di genio.
Capitolo 4: un tornado chiamato Telstar"Telstar" is such a marvellous tune, full of life
(Margaret Thatcher)
Un frequentatore della Factory
meekiana non avrebbe avuto troppe difficoltà a notare un insolito affollamento di ragazzi carini e ben curati, particolari a cui il padrone di casa riserva spesso più attenzione rispetto alle loro effettive doti musicali: parliamo pur sempre dell'uomo che ha sbattuto la porta in faccia ai
Beatles, sbeffeggiando il nullo fiuto commerciale dell'amico Brian Epstein, per dedicare gran parte della carriera a smidollati che senza il suo talento non sarebbero andati da nessuna parte. L'orientamento sessuale di Meek, a dire il vero, non è un mistero per nessuno: seppur rigorosamente
closeted in accordo al clima oscurantista dell'epoca, tutto in lui trabocca di
camp, dai modi sgargianti alle pacchianate con cui ama infiorettare le produzioni fino, per l'appunto, ai
proteges su cui s'incaponisce a puntare tutto.
Un bel giorno si presenta nella sua casa-studio Heinz Burt, bassista di origine tedesca che aveva suonato negli anni 50 con il complessino Falcons e adesso lavora in un negozio di alimentari: strumentista mediocre, ma raggiante di teutonica bellezza. Joe se ne innamora perdutamente, vedendo in lui l'angelo biondo delle sue turgide fantasie, e decide subito di trasformarlo nella
sua star: ispirandosi all'adorato racconto di fantascienza di John Wyndham "The Midwich Cuckoos", gli fa ossigenare i capelli per donargli un aspetto fuori dal comune (oggi diremmo punk) e cerca di farlo assumere dagli Outlaws, che però rifiutano. Poco male, vorrà dire che gli costruirà un nuovo gruppo attorno: convoca Alan Caddy e George Bellamy (padre di
Matt) alle chitarre, Roger LaVern all'organo e Clem Cattini alla batteria, li ribattezza Tornados e li appioppa come
backing band all'astro nascente Billy Fury, iniziando a meditare un loro lancio con tutti i crismi. Il primo singolo, "Love And Fury", va abbastanza bene e rinsalda l'affiatamento collettivo, scaldando i motori quanto basta. Meek è elettrico, ha solo bisogno di una scintilla per dar fuoco alla miccia, e la Storia sta casualmente per esaudire i suoi desideri.
Il 10 luglio di quell'anno, l'American Telegraph & Telephone Company manda in orbita il satellite Telstar 1. Davanti agli occhi sbalorditi di migliaia di telespettatori, il miracolo si compie: dopo un interminabile e disturbatissimo abbordaggio, sui televisori delle famiglie inglesi appaiono per le prima volta immagini provenienti dall'altro capo dell'Atlantico. È l'inizio delle telecomunicazioni: il mondo è per la prima volta connesso in tempo reale, e il tutto è comodamente fruibile da casa. Data la già menzionata passionaccia spaziale, Joe è suggestionato all'ennesima potenza dallo storico avvenimento, al punto da non dormirci la notte. Ed è proprio in una di queste notti agitate che gli si insinua in testa una melodia tentacolare, di quelle che ti acchiappano per stritolarti: si precipita a immortalarla in una delle sue stridule
demo vocali (l'ubriachissimo frammento, tra le più lancinanti dichiarazioni di libertà artistica mai documentate, si può ascoltare nella
compilation-cult "Songs In The Key Of Z", dedicata all'
outsider music), e il giorno dopo l'affida al suo fedele assistente Dave Adams, che la trascrive.
Convoca al più preso i Tornados, a cui ordina di suonare un accompagnamento trotterellante. Appena Goddard arriva in studio, gli mette tra le mani un
clavioline su cui rielaborare quella melodia folgorante, chiedendogli di doppiarla con la voce nell'ultima strofa. Il tocco finale lo dà con un paio di trovate delle sue: per simulare i rumori di un razzo, prima soffia vicinissimo al microfono effettando il tutto con un
delay, poi mette in
reverse lo sciacquone del water. Come lato B confeziona al volo "Jungle Fever", una scopiazzatura da Bo Diddley tanto per giustificare il 45 giri, e il 17 agosto 1962 lancia in orbita il suo di satellite: se il prodigio della AT&T aveva gettato un ponte telematico tra Vecchio e Nuovo Mondo, le note di "Telstar" volano ancora più in alto, conquistando il primo posto sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti. Non era mai accaduto prima: l'inattaccabile America è finalmente violata, ha inizio la British Invasion. Supererà i cinque milioni di copie, che ne fanno il singolo più ascoltato dell'anno e la traccia strumentale più venduta di tutti i tempi. Il merito è di un suono che racchiude meglio di un trattato sociologico lo spirito innocente e ottimista del periodo, e che ancora oggi evoca un senso di nostalgia da rammollire le gambe: "Telstar"
è l'Era Spaziale. Il pubblico è conquistato allo stesso tempo da quel tema irresistibile e da quelle atmosfere realmente interplanetarie, senza bisogno di parole: il pop sperimentale è una realtà.
Meek si aggiudica il prestigioso Ivor Novello Award per il suo lavoro di produzione, mentre la stampa cerca di far baccano inventando un'inesistente competizione tra i Tornados e gli Shadows: è il primo
band match, tattica a cui i tabloid britannici rimarranno accanitamente legati. Per cavalcare il successo, qualche mese più tardi viene data in pasto al mercato una versione cantata da
Kenny Hollywood, rinominata per l'occasione "Magic Star" e sempre prodotta da Meek. Nel corso degli anni, quella canzoncina briosa la rifaranno un po' tutti: in Italia è rimasta celebre la versione di
Piero Umiliani, attribuita a Ingegner Giovanni e Famiglia (?). E sì, piacerà moltissimo anche alla signora Thatcher.
Ahinoi, i Tornados faranno una fine non troppo dissimile da quella del satellite che li ha ispirati, persosi nello spazio appena un mese dopo il lancio. Se il 1963 frutta due nuove hit del calibro di "Globetrotter" e "Robot" (accompagnata da un carinissimo
scopitone film, gli antenati dei videoclip riprodotti su appositi jukebox), i cinque si trovano impossibilitati a capitalizzare il successo a causa di un contratto capestro che li costringe a rimanere nel Regno Unito per accompagnare dal vivo Billy Fury, loro principale datore di lavoro. Nel frattempo, un misconosciuto compositore francese, tal Jean Ledrut, accusa Meek di aver plagiato il tema della colonna sonora del film "Austerlitz", da lui composta. Scatta una causa articolatissima per districare onori e oneri, e in attesa del verdetto le succulente
royalties del brano sono congelate. Né la band né il suo
deus ex machina, potenzialmente milionari, percepiranno il becco di un quattrino. Nel frattempo, l'avvento del Merseybeat segna il declino dei gruppi strumentali: il momento magico è passato, i Tornados collassano. Sono stati uno dei gruppi più sfortunati di sempre. Ancora una volta, Meek è sconfitto dal Caso. Per il suo fragilissimo equilibrio, il colpo è devastante.
Con i Tornados fuori combattimento, lo sfigatissimo produttore si concentra sulla carriera solista del suo pupillo, che ribattezza semplicemente Heinz. L'efebico crucco deve però fare i conti con un problemino mica da ridere: ha una voce imbarazzante (dramma costante nelle produzioni
meekiane: in molti concordano che, anche solo assoldando vocalist meno scadenti, avrebbe potuto raddoppiare il proprio successo). Il serafico boss non si perde d'animo: lo manda a lezione, e intanto fa cantare un più performante sostituto in incognito sul primo singolo "Dreams Come True" (1963), che tuttavia fallisce l'ingresso nelle chart. Meek non vuole saperne di mollare: gli organizza un tour di supporto a Gene Vincent, ma un pubblico insospettabilmente ironico risponde lanciandogli addosso fagioli, alludendo all'omonimia con la celebre marca di legumi in scatola. Andrà meglio l'anno dopo con "Just Like Eddie", spensierato tributo al mito Eddie Cochran con un giovanissimo Ritchie Blackmore alla chitarra solista. La carriera prende quota ma i tempi sono cambiati: l'avvento dei Beatles ha stravolto la faccia del music business e Heinz viene percepito come un tardo
teen idol anni 50. A poco giovano un disco intero dedicato a Cochran ("A Tribute To Eddy") e un film musicale in cui l'improbabile biondino si atteggia a novello
Elvis ("Live It Up").
Joe, intanto, inizia a smarrire la bussola, come dimostrano le folli spese sostenute per promuovere il suo amato e la discutibile gestione delle conseguenti
royalties.
Capitolo 5: vieni qui spesso?
"Do you come here often?"
"Only when the pirate ships go off air"
"Me too"
"Well, I see pyjama styled shirts are in, then"
"Well, pyjamas are OUT, as far as I'm concerned anyway"
"Who cares?"
"Well, I know of a few people who do"
"Yes, you would"
"WOW! These two, coming now. What do you think?"
"Mmmmmm. Mine's all right, but I don't like the look of yours"
"Well, I must be off"
"Yes, you're not looking so good"
"Cheerio. I'll see you down the Dilly"
"Not if I see you first, you won't"
("Do You Come Here Often?", 1966)
Nonostante le nubi in addensamento, il Joe Meek a cavallo delle cruciali annate '63/'64 è ancora un artista determinato e quantomai prolifico, con ben 75 singoli dati in pasto al mercato: tra gli altri, produce i primissimi provini di Tom Jones e soprattutto segue lo spassoso Screaming Lord Sutch, mascheratissimo anello di congiunzione tra Screaming Jay Hawkins e
Alice Cooper con il suo rock'n'roll horrorifico pre-
Cramps. Meek idea dei deliranti video promozionali per
weird classics come "Jack The Ripper" e "Dracula's Daughter", in cui ha modo di dare fondo al proprio repertorio di suggestioni occulto-mortifere. "Have I The Right" degli Honeycombs, in cui fa bella mostra di sé la decana delle batteriste donne Honey Lantree, raro compromesso con il nascente beat (da lui considerato poco più che una moda passeggera), è il maggiore successo del periodo e uno dei suoi massimi traguardi tecnici, ma segna anche la rottura con il preziosissimo Goddard. Il problema è che in quegli anni la produzione musicale è diventata sinonimo di due parole che hanno azzerato il tabellone dei punti: Phil Spector. Joe tenta di inserirsi a suo modo nel fenomeno
girl group forgiando canzoncine come "I Lost My Heart In The Fairground" di Glenda Collins che, seppur apprezzabili, sono ben poca cosa rispetto alle possenti torte a strati del mago di Hollywood, verso cui Meek inizia a nutrire un rancore paranoide simile a quello che affliggerà
Brian Wilson. Spector, dal canto suo, ammira Meek, e tra i due ci sarà una surreale telefonata passata alla storia: il Nostro riceverà infatti una chiamata di complimenti dal produttore statunitense cui replicherà accusandolo di aver copiato le sue idee, sbattendogli poi il telefono in faccia con una tale rabbia da rompere la cornetta.
Tutto ciò, tuttavia, risulta poco più che un'inezia in confronto al tracollo che sta per scatenarsi. Nel 1963 Joe viene sorpreso in un bagno pubblico da un agente in borghese: accusato di
cottaging, si becca una notte in cella e una multa. La notizia finisce in prima pagina, a dimostrazione di quanto l'astro del "Telstar Man" ancora risplenda nel firmamento britannico, e lo esporrà a una serie di penosi ricatti. I colleghi sono perplessi, non tanto per il segreto di pulcinella sbattuto in piazza quanto per l'assurdità dei retroscena: per quale ragione un uomo sempre circondato da tutti i ragazzi che potrebbe desiderare si riduce a pratiche così rischiose? Il successo e la vita londinese non hanno scalfito il problematico imprinting di questo autentico Pasolini del rock, campagnolo represso e frustrato il cui maggior terrore è che lo sconveniente misfatto possa raggiungere la madre. Per il povero Joe è, letteralmente, l'inizio della fine.
Eppure, la sua metà degli anni 60 è ancora ricchissima di voglia di mettersi in gioco e confrontarsi con il presente: i graffianti esperimenti
freakbeat con "Singing The Blues" dei Jason Eddie and The Centremen (gruppo del fratello di Billy Fury) e "Crawdaddy Simone" dei Syndicats (in cui suonano degli imberbi
Roger Glover e Steve Howe), l'incantevole doo-wop di "Please Stay" dei Crying Shames (originariamente scritta da
Bacharach per i Drifters e considerata da Meek il proprio traguardo produttivo), addirittura un'inattesa canzone di protesta come l'anti-nuclearista "It's Hard To Believe It" della Collins. Le cose andrebbero ancora meglio, se solo qualcuno riuscisse a togliergli dalla testa il solito Heinz, che con la sua versione di "Don't Think Twice, It's Alright" fa comunque in tempo a lanciare la moda delle cover
dylaniane. Il rapporto tra i due, in ogni caso, è ormai ai ferri corti: poco disposto ad assecondare gli appetiti sessuali del suo mentore e indispettito dagli scarsi guadagni, l'arrogante ragazzino abbandona presto il tempio di Holloway Road, non prima di aver sadicamente presentato la sua nuova ragazza a un basito Meek ed essersi dimenticato nella casa-studio un'arma da fuoco di cui, nostro malgrado, saremo costretti a parlare tra poco.
Sempre più disperato, Joe ha un colpo di reni che magari non scombina la storia della musica, ma sul piano sociologico si rivelerà a dir poco dirompente. Un po' per rievocare i suoi fasti, un po' per rifarsi sul bastardo che gli ha spezzato il cuore, nel 1966 mette in piedi un'edizione apocrifa dei Tornados con nuovi strumentisti, durata il tempo di un 45 giri appioppato nulla meno che alla Columbia. "Is That a Ship I Hear?", traboccante di suoni marinareschi pensati per ingolosire le allora influenti
pirate stations, è l'ultimo dei suoi
pastiche visionari, ma ad attirare l'attenzione è un brano apparentemente molto più innocuo intitolato "Do You Come Here Often?". Per due minuti e mezzo è null'altro se non uno strumentale cocktail-lounge da sottofondo, ma proprio in quel momento si fa strada una finta registrazione ambientale e accade qualcosa di incredibile: due omosessuali iniziano a discutere in maniera piccante e civettuola in quello che sembrerebbe essere il bagno di un locale. Non tutti intendono, ma per orecchie ricettive il brano è tutt'altro che velato nell'offrire un vivace spaccato di vita londinese: è il
coming out ufficiale di Meek, un coraggioso tentativo di esorcizzare lo spiacevole episodio di tre anni prima e, sopratutto, la prima canzone
gay-themed mai pubblicata da una major, chissà quanto consapevole e consenziente. Nel 2006 apparirà, assieme ad altri analoghi sberleffi sotto mentite spoglie, nell'antologia compilata da Jon Savage "Queer Noises 1961-1978: From The Closet To The Charts", incoronando Meek tra i grandi sdoganatori della cultura
queer nella musica rock. Riascoltato ancora oggi, quel gesto sovversivo così elegante e ben mascherato rimane di un'intelligenza spiazzante. Niente male, come canto del cigno.
Epilogo: due colpi di fucile a LondraJoe Meek, record producer, 'The Telstar Man', pioneer of recording sound technology, lived, worked and died here
(Placca commemorativa al 304 di Holloway Road)
Mentre il rock è attraversato da una fibrillazione che pare travolgere ogni cosa e l'intera società è sconvolta da mutamenti irreversibili, il rapporto tra la realtà e Joe Meek, che pure ha dato un contributo fondamentale a quel
bailamme, si fa più labile giorno dopo giorno. Le sue manie di persecuzione sono da tempo fuori controllo. Tutti lo spiano: la polizia, per coglierlo di nuovo con le mani nella marmellata; i gangster Kray Twins, per ricattarlo; le major, per metterlo fuori gioco commercialmente; Phil Spector, per rubargli i segreti del mestiere. Bisogna prendere precauzioni: applica dei lucchetti alla sala regia, tappezza le stanze di microfoni, ordina al suo assistente "Pink Patrick" (vero nome: Robbie Duke) di non far entrare nessuno in studio senza il suo permesso, setaccia tutto l'appartamento in cerca di possibili cimici. Se dei vivi non ci si può fidare, i morti rimangono un buon partito: le sue visite nei cimiteri divengono appuntamenti quotidiani, sempre accompagnato dall'inseparabile registratore (una di quelle lugubri
field recording, in cui dialoga con un gatto considerandolo la reincarnazione di un defunto, è
di pubblico dominio). Quando non si aggira tra le lapidi, trova conforto nelle solite sedute spiritiche, nei libri di Aleister Crowley e in un vorace consumo di barbiturici e anfetamine, che ne incrinano ulteriormente la volatilità umorale. I suoi deliri sfiorano un allucinato superomismo: si convince di poter usare i suoi macchinari per controllare i pensieri dei presunti avversari e di poter tenere sotto controllo lo studio a distanza grazie a non meglio precisate facoltà paranormali. La diagnosi postuma parlerà di schizofrenia e disturbo bipolare, per il poco che può interessarci.
A peggiorare il quadro, come se tutto non bastasse, ci si mette l'ennesimo fattaccio. Nel gennaio del 1967, poco dopo l'uscita di quello che rimarrà il suo ultimo singolo (l'impeccabile "Gonna Be A First Time" dei Riot Squad), l'Inghilterra è turbata dal caso Bernard Oliver, anche noto come "the suitcase murder": il corpo di un giovane omosessuale viene ritrovato fatto a pezzi dentro due valigie. L'isteria dilaga e la polizia, che per identificare la vittima aveva divulgato una macabra foto della testa decapitata, inizia a battere i luoghi di ritrovo dei gay londinesi per raccogliere informazioni. Meek conosceva personalmente Oliver (secondo alcune fonti, per un periodo sarebbe stato addirittura un dipendente dello studio, ma la questione non è mai stata chiarita), e sprofonda nel terrore di essere incluso tra gli indagati. Il caso, per la cronaca, è a tutt'oggi insoluto.
D'altro canto, i problemi a Meek non mancano nemmeno sotto il profilo meschinamente materiale: sommerso da debiti che non può pagare, viene depredato dagli esattori di Sua Maestà, che gli confiscano tutti i beni. La sua ultima, grande occasione l'aveva rifiutata qualche mese prima: su invito di Brian Epstein, nel giugno del '66 aveva assistito al concerto di Bob Dylan alla Royal Albert Hall dal palco dei Beatles, declinando la proposta di Sir John Lockwood di diventare produttore
in-house per la Emi. Si barrica nella sua casa ormai vuota, dove tra un'allucinazione e l'altra si dedica alla pittura, uscendo sporadicamente e sempre con dei grossi occhiali da sole, per non farsi riconoscere. Ormai è solo questione di giorni.
Il 3 febbraio 1967 la padrona di casa Violet Shenton viene a riscuotere l'affitto. Trova Meek in stato confusionale e accelerato dalle anfetamine. Dopo averla accusata di spiarlo, le punta contro il fucile e la fredda, per poi rivolgere l'arma contro la propria meravigliosa testa. È l'anniversario della scomparsa di Buddy Holly, unica data che Joe non ha mai dovuto segnare sul calendario. Quello stesso giorno, i Beatles terminano di registrare "
A Day In The Life".
Tre mesi dopo, il giudice risolve la controversia su "Telstar" a favore di Meek, che non poteva aver visto "Austerlitz" essendo uscito in Gran Bretagna solo nel 1965. Il 21 luglio, il Parlamento Britannico approva il Sexual Offences Act 1967, depenalizzando una volta per tutte l'omosessualità in Inghilterra. A volte il destino è davvero beffardo. Per una crudele coincidenza, in quelli stessi mesi se ne vanno altri due martiri della persecuzione omofoba inglese che aveva già falciato Alan Turing: Brian Epstein e Joe Orton.
Heinz rimarrà coinvolto nelle indagini in quanto proprietario del fucile: nonostante la sua estraneità verrà presto appurata, la carriera ne uscirà stroncata. Vivacchierà nel ruolo del sopravvissuto (anche con i Tornados, che si riuniranno nel 1975 per incidere una nuova versione di "Telstar") prima di soccombere a un ictus, il 7 aprile del 2000.
Joe Meek lascia un disordinatissimo archivio di incisioni inedite scoperto da Cliff Cooper, bassista dei Millionaires nonché fondatore della celebre azienda di amplificatori Orange. Ribattezzate "Tea Chest Tapes", dal nome del contenitore in cui il proprietario soleva immagazzinarle, le circa 4.000 ore (!) di musica contengono registrazioni con David Bowie, Jimmy Page, Ritchie Blackmore, Mitch Mitchell e tantissimi altri. Battute all'asta nel 2008 per 200.000 sterline, non risultano ancora pubblicate.
Il primo tentativo di gettare luce sull'enigma dell'artista e dell'uomo è il libro "The Legendary Joe Meek" di John Repsch, uscito nel 1989, da cui due anni dopo la Bbc trarrà il documentario "The Strange Story Of Joe Meek". Nel 2008 esce invece il biopic "Telstar: The Joe Meek Story" del commediografo Nick Moran, tratto da una sua opera teatrale, con Con O'Neill nel ruolo di Meek e Kevin Spacey in quello di "Major" Wilfred Alonzo Banks. Nonostante l'accurata ricostruzione d'epoca e gli interpreti convincenti, il film suscita più di una perplessità per l'eccessiva drammatizzazione del disagio mentale di Meek, oltre che per alcuni discutibili cenni sulla sua intimità (ad esempio, viene dato per scontato che Joe e Heinz fossero amanti, pur in assenza di prove di una relazione smentita pressoché da tutti). Un nuovo documentario intitolato "A Life In The Death Of Joe Meek", diretto da Howard S. Berger e Susan Stahman, è ancora in fase di produzione.
Più cristallini i tributi "tecnici" riscossi nel corso degli anni. Nel 1993 l'inventore e tecnico del suono Ted Fletcher gli dedica un'intera linea di equipaggiamento audio. Nel 2009 viene istituito il Joe Meek Award for Innovation in Production, vinto quell'anno da
Brian Eno. Nel 2014 si guadagnerà il primo posto nella classifica del New Musical Express dedicata ai più grandi produttori di sempre, sconfiggendo almeno post-mortem l'eterno spauracchio Phil Spector (a questo proposito, i fanatici delle coincidenze sospette noteranno che anche Lana Clarkson è morta il 3 febbraio...).
Tra i tanti omaggi musicali ricevuti va ricordato almeno il brano dei
Matmos "
Solo Buttons for Joe Meek", incluso nell'album del 2006 "
The Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast". La sua memoria è tutelata dalla solertissima Joe Meek Society, che periodicamente pubblica un apposito bollettino. Oggi, al 304 di Holloway Road, una placca commemorativa semi-nascosta ricorda ai passanti l'uomo che visse, lavorò e morì lì.
Epitome del produttore indipendente, Joe Meek è stato l'eroe nazionale della civiltà pre-Beatles, integralmente
British nella sua stravaganza. Troppo idiosincratico per vivere con serenità il proprio genio, ha immaginato mondi che si sono puntualmente avverati e di cui non ha potuto godere la magnificenza, dovendosi accontentare di un buio satellite abitato dai suoi spettri. Se la vicenda umana rimane tra le più strazianti, l'eredità artistica preserverà in eterno la gloria che un destino assurdo ha voluto negargli fino alla fine.
Questo articolo è dedicato a Honey Lantree degli Honeycombs, tra le primissime batteriste donna della storia del rock, scomparsa il 23 dicembre del 2018.