Dopo la parentesi di “Disperate Abitudini” a nome Il Lungo Addio, Fabrizio Testa dà un seguito a “Mastice” con “Morire”. Il caso di Testa è curioso; norma vorrebbe che l’artista che si spoglia del moniker di fantasia diventi più tradizionale e acustico. Per il musicista milanese da tempo trapiantato a Parigi è esattamente l’inverso. I dischi a nome proprio si confermano essere piccole esplosioni di fantasia babelica e delirante.
La title track per solo coro alpino, attraverso i barocchi e modulati contrappunti, fa da “introitus” al suo requiem, una purezza che rispetto alla tossicità nichilista di quanto segue rende un contrasto monumentale.
In ogni caso - una “novità” rispetto al debutto - qui le voci talvolta provano a cantare e a non declamare solamente. Ma il canto è solo un abbozzo nelle varie “Africa addio” e “Saronno”. “Africa addio” suona come la sovrapposizione casuale di due distinte sorgenti: una jam di rumorosa new wave e un 78 giri che suona una gracchiante canzonetta d’inizio 900, distorta da rendere irriconoscibili le liriche e fastidiosa quanto un’interferenza. Allo stesso modo “Saronno” sembra una triste ballata di Fabrizio De André cantata con un anemico filtro elettronico, arrangiata dai Suicide e registrata in una stanza vuota.
In “Uccidere” un classico lento sentimentale alla Tom Waits-Marc Ribot è rallentato, ovattato, reso onirico fino a perdere i connotati e a trasformarsi in mummificato sottofondo. Il canto torna a essere pura recitazione in “Il giocattolo”, ma la catasta psichedelica di effetti riverberati e di arpeggi in reverse tagliuzzati, sovrapposti e messi in loop ruba di netto la scena. Troppo breve è invece lo spirito sciamanico che anima il recitar cantando, accompagnato soltanto da una base sincopata drum’n’bass, di “Terreno K”.
L’arrangiamento più creativo, e uno dei più eretici del rock italiano, è comunque de “La caccia”. La voce prova a recitare qualcosa, ma è solo un soffio svanito che dissona tra tastiere tremule minimaliste (l'harmonium funebre di Nico), campane a morto, percussioncine snervanti, rumori elettronici, e soprattutto uno sgraziato solo di chitarra acida che trafigge tutto.
Non avesse la durata, purtroppo anche inferiore al predecessore “Mastice”, esigua da umile anteprima di un’opera che non c’è, si ergerebbe ad agghiacciante punto di non ritorno della canzone italiana, il suo black hole, il suo “Twin Infinitives”, la sua morte appunto, così come concettualizzato dalla sacca per cadaveri che ne fa da confezione (una bustina nera con cerniera a zip, a cura di Elisa Alberghi). Trafila di ospiti vecchi e nuovi (Amy Denio, Xabier Iriondo, Roberto Bertacchini, Stefano Ghittoni, Federico Ciappini, Alessandro Camilletti), oltre al coro “Mario Bazzi” (direttore: Massimo Marchesotti). Fanno bella mostra gli spezzoni dei film (anche Sordi ne “Il vedovo”, 1959), e l’intervista campionata in “Saronno” a Simone Cattaneo (1974-2009), considerato l’ultimo poeta maledetto italiano, cui il brano è dedicato. Uscito il 1° gennaio.
20/01/2014