Hiatus o non hiatus, riecco i Thee Oh Sees. Certo non sarà facile, d’ora innanzi, accogliere con lo stesso bronzeo contegno di ieri qualunque roboante dichiarazione venga sparsa ai quattro venti dalla voce monella di John Dwyer. Questo non solo per la burla del disco nuovo: si è mai visto un gruppo in pausa di riflessione che programmi con noncuranza una bella manciata di date festivaliere nell’estate ormai prossima? Ovviamente no, a meno che non si stia parlando di una band che non conosce altri giorni che il primo di aprile, interminabile e replicato a oltranza.
Aspettavamo “Drop” come l’unica risposta plausibile sul conto dei vandali californiani. Vanamente, perché era fuori luogo in partenza ogni domanda riguardo al loro futuro. Quindi per il fatto di trovarci al cospetto, ancora una volta, di un’opera del solo Dwyer (assistito dal fidato tuttofare Chris Woodhouse). E infine perché questo nuovo lavoro – perdonateci, il conto complessivo delle pubblicazioni l’abbiamo perso da un po’ – è davvero sensazionale soltanto per come disattenda sistematicamente gli impegni, evasivo quasi per capriccio sin dall’abbrivio di “Penetrating Eye”. Meglio così, in fin dei conti. Introdotti da una nenia ipnotica, i consueti bramiti fuzz intrattengono nell’ennesima, sciroccatissima, sfarfallante canzoncina, flusso denso e mesmerico che tende a tracimare e invadere ogni spazio come una colorata ossessione psych. Più trottante ma ugualmente vacanziera la successiva “Encrypted Bounce”, che ripropone l’inconfondibile duetto muliebre della casa (con Greer McGettrick dei “figliocci” The Mallard a far le veci di Brigid Dawson) nel quadro di una nuova esplorazione anguillesca, in odore di jam asprigne e pachidermiche: pezzi insomma rilassati ma pur sempre riconoscibili, serpeggianti nel loro sbrindellato abitino motorik.
Le vaghe ascendenze kraute provano a offrire un’ipotesi di criterio a queste informi perlustrazioni autistiche, ma la piena libertà espressiva rimane un idolo, una consegna irrinunciabile per John. Quello che si configura è allora un album di ripiegamento, chiamato a decelerare in maniera alquanto brusca dopo la grande spinta propulsiva delle ultime uscite, prediligendo una condotta di svagata indolenza. Nel contempo certe intuizioni di “Putrifiers II” e “Floating Coffin” sono comunque riprese e sviluppate, a riprova di come il musicista di San Francisco ami perseverare nel proprio lento (ma innegabile) tragitto evolutivo. Come già era capitato in entrambe le prove, “King’s Nose” offre un ruolo da protagonista al mellotron e apre a una più pronunciata nitidezza barocca. In controluce rifulge il camaleontico talento di un artista da sempre a suo agio nel farsi infettare dal passato, per dar vita a innesti magari bizzarri ma originali. Stesso discorso per il radioso e tranquillizzante passaggio beatlesiano scelto per la chiusa, mimetica meraviglia retorica (con i fiati di Mikal Cronin) i cui brandelli di polverosa fantasia non possono che assomigliare alla promessa di un nuovo inizio.
Si tratta però sempre di dilettevoli evasioni in alleggerimento, olimpiche quanto inessenziali, e questa è la vera inclinazione di “Drop”. Ecco spiegate allora le sottili reminescenze dai Deerhunter, in un altro episodio – “Camera (Queer Sound)” – che addolcisce verso il pop lo spigoloso revival rock psichedelico della compagine statunitense. Ed ecco perché venga subito in mente lo scapestrato entusiasmo dell’amico Ty Segall quando ci si lasci andare all’insolita leggerezza della title track, con le taglienti digressioni di una chitarra elettrica bizzosa ma espansiva. Questo per non parlare del tormentone-scherzo di “Put Some Reverb On My Brother”, filler con licenza di smorzare i toni sino al punto da risultare irritante.
La sorpresa arriva però un attimo prima del congedo. Nelle sue dilatazioni acide à la Syd Barrett, “Transparent World” si aggiudica in scioltezza la palma per il titolo più allucinato del lotto: ancora in termini placidamente narcotici, come a caccia di una pax lisergica che, a questo punto, potrebbe valere come più credibile manifestazione sonora dei puntini di sospensione dietro cui i Thee Oh Sees si sono trincerati, nel loro (finto?) nascondino. E’ da qui che, con ogni probabilità, ripartiranno quando sarà ora.
(Nota di colore: le fotografie che accompagnano l’Lp sono di Heidi Alexander, frontwoman delle Sandwitches e compagna di Dwyer)
14/05/2014