Dopo la conferma da parte di Mr. Flying Lotus presso la sua Brainfeeder, per Stuart Howard è tempo di secondo disco, ovvero di emigrare dallo status di promessa a quello di certezza. Il declino del soul-step come tendenza e la sua evoluzione verso territori sempre più contaminati sono al tempo stesso una difficoltà in più e l'occasione da non sprecare per spiccare definitivamente il volo. Gli episodi precedenti avevano mostrato un ragazzo con tanto talento e non troppe idee, una tecnica eccezionale e un estro per certi versi sopravvalutato. Di sicuro, un'ottima capacità di vendere e vendersi.
Con “Lustmore”, di fatto, le cose cambiano poco. C'è nei suoni come nella copertina l'elemento retrò a fare capolino, che tra tutte le vie di fuga dallo spettro di James Blake è forse la meno coraggiosa, la più accomodante, la meno stimolante e la più in voga. C'è mai come prima un ricorso quasi sistematico ai suoni della tradizione nineties. C'è un'indecisione di fondo che si traduce in un crossover: atmosfere d'eleganza post-dubstep da un lato, propensione verso un r'n'b velato di pop dall'altro, reverenza al wonky del padrone di casa via infarinazione ipnagogica nel mezzo.
Segnali di evoluzione decisa sono quelli che affiorano dall'introduzione di “U Never Know”, dove Andreya Triana fa destreggiare la sua voce fra rimasugli urban filtrati attraverso le pareti di casa e memorie del dubstep che fu. Il pendolo inizia a oscillare però già da “Closure”, con Szjerdene a improvvisarsi Jessie Ware fra archi sintetici, modulazioni elettroniche e schizzi black. Una scena che si ripete, ancor più smaccata, in una “We Lost” che porta il disegno The Weeknd fra i tavoli di un lounge bar e nella più “impegnata” “Puzzle”, autentica trasfigurazione wonky di FKA twigs.
Proprio wonky è l'altra parola chiave, quella sotto cui si infilano una serie di omaggi fin troppo calligrafici al maestro FlyLo, privato del suo istrionismo sulla strada verso il sophisti. “Sum Body”, “Push N' Spun” e “1004” sono in tal senso cocktail dai mille colori, privi però di un gusto che lasci il segno. Decisamente meglio va in “Midnight Peelers”, marcetta al ralenti affidata a voci bianche elettroniche e davvero a due passi dalla retromania di Rone (sempre sia lodato), forse l'episodio nel complesso migliore dell'intero lavoro.
A dire il vero, è proprio nei passaggi più sfacciatamente retrò che Lapalux sembra trovarsi del tutto a suo agio. “Bud” potrebbe essere un outtake dal µ-Ziq folgorato dall'asfalto, tanto quanto “Don't Mean A Thing” ricalca quel Phon.o primo artefice della riscoperta reciproca tra dubstep e garage. E ancora “Make Money”, il dubstep com'era ai tempi di Benga, Skream e della Tempa, e il finale di “Funny Games”, dialogo in provetta fra melodie acidule come se Nathan Fake stesse fungendo da remixer. Abbastanza per rendere gradevole l'ascolto, non di certo per parlare di conferma.
17/05/2015