Prima o poi doveva succedere, le premesse c’erano tutte.
La capacità degli americani Jack O’ The Clock di reinventare il progressive-rock, trascinandolo in anfratti oscuri e imprevedibili, non poteva andare dispersa in potenziali dischi di buon livello privi però dello status di classico.
“Repetitions Of The Old City, 1” non solo è l’album più complesso e articolato della band, ma anche il più conciso e vibrante della loro produzione. Un progetto che nasce dall’interazione con il pubblico dei loro tour, dove le canzoni si sono sviluppate fino a prendere forma, in una catarsi creativa di cui questi 64 minuti rappresentano solo una prima parte.
Dopo dieci anni, il sound dei Jack O’ The Clock assume sempre di più caratteristiche singolari, come una big band in bilico tra jazz, prog, chamber-folk e avantgarde, il gruppo accorda con fantasiose architetture ritmiche e melodiche una serie di contrappunti armonici, generati dall’interazione tra una strumentazione più classicamente rock e un’immaginaria orchestra da camera, composta da violino, dulcimer, piano e fagotto.
Le composizioni sono vere e proprie mini-suite, dense e corpose, mai ripetitive o diluite, ogni frammento strumentale ha la sua ragion d’essere.
Sono mosaici dalle migliaia di tasselli perfettamente incastrati, una girandola di colori e sfumature che conciliano sperimentazione e istinto.
Gli arpeggi di chitarra acustica che introducono i dodici minuti di “When The Door Opens, It Opens On Everything” per un attimo evocano gli Yes di “Close To The Edge”, ma bastano pochi secondi e si viene travolti da una frastagliata sequenza di break e riprese armoniche che accolgono in sequenza variazioni elettroacustiche di rara bellezza; fagotto e violino duettano su ritmi jazz-rock fino all’apoteosi finale.
“Fighting The Doughboy” rinsalda il loro legame con il Rock in Opposition di Henry Cow e Art Bears, frantumando romanticismo e armonie con dissonanze inusuali e quasi disturbanti, non è un caso che tra gli ospiti figuri Fred Frith: uno dei più abili molestatori sonori di tutti i tempi.
Come si fa a non amare un album che affida l’introduzione a un madrigale folk per sole voci (”I Am So Glad To Meet You“), prima di dar spazio a una piccola sinfonia folk-prog dai toni pastorali (“The Old Man And The Table Saw”)? Dulcimer, vibrafono, marimba, violino e batteria conducono le danze con un rituale armonico medievale, che prima il cantato e poi fagotto e violino stravolgono senza apparenti traumi lirici.
Non è scorretto utilizzare il termine chamber-pop per le orchestrazioni di gran parte delle tracce, ma va sottolineato che non è un suono affine alle deliziose e concilianti sonorità di gruppi pop dai fluidi orchestrali. Le direttive sono quelle irrispettose di Frank Zappa (“.22, Or Denny Takes One For The Team”), quelle più plumbee degli Henry Cow (la splendida ed enigmatica “Videos Of The Dead”), perfino l’eccentrico post-modernismo di Van Dyke Parks (“After The Dive”) o le oscure trame folk dei Gentle Giant (“Epistemology/Even Keel”).
Anche i testi non restano in disparte, ricchi di riferimenti sociali e culturali, comunque privi di quell’etica post-intellettuale che spesso rende i brani pretenziosi o superflui; tutto abilmente sottolineato dalla voce malinconica e sarcastica di Damon Waitkus.
“Repetitions Of The Old City, 1” è un album ricco di dettagli preziosi, un diamante dalle mille sfaccettature, un progetto multidimensionale e visionario che rispolvera memorie, sogni e allucinazioni da tempo abbandonate dall’intellighenzia musicale.
11/12/2016