Dall'anno domini 1998 in poi il nome Ulver ha dismesso la sua connotazione di stampo amatoriale (benché la leggendaria trilogia non lo fosse affatto) e si è imposto come titolo di per sé non-significante, ma indicativo di un suono tanto arduo da inquadrare quanto inconfondibile. Ulver è musica altra, arte in costante evoluzione della quale possiamo trarre un sunto solo nella dimensione live, come nel maestoso spettacolo multimediale alla Norwegian National Opera.
E non è un caso che le stesse sonorità, solenni e senza tempo, di quel coronamento ritornino oggi in questa meta-opera "assemblata": un full-lenght nel vero senso del termine, 80 minuti quasi interamente strumentali i cui brani sono le tappe di una selezione, in seguito rimaneggiata in studio dal mastro Daniel O'Sullivan, dalle sessioni che hanno segnato il tour del febbraio 2014, e dove per la prima volta il collettivo norvegese si è cautamente misurato con la dimensione improvvisativa.
Un raggio d'azione difficilmente immaginabile persino in relazione a una realtà musicale sui generis come quella degli Ulver, così sensibili all'effetto calcolato, allo sviluppo organico dei temi e al totale controllo dell'equilibrio sonoro. Ma un missaggio conscio degli obiettivi perseguiti dall'artista ha il potere di coniugare la coralità della performance pubblica e le voci individuali della line-up, le ariose risonanze della microfonazione panoramica e gli input elettronici ricuperati alla fonte.
Anche per questo l'insieme complesso di “ATGCLVLSSCAP” – il cui titolo è l'impronunciabile acronimo delle stelle zodiacali – presenta caratteri stilistici che in una produzione così eclettica ed eccentrica suonano come sedimenti del tempo, a compimento di un discorso introdotto maldestramente da “Childhood's End” (di cui rimane qui intatta la formazione) e sinora mai esplorato con la dovuta diligenza. Un'operazione, se vogliamo, non troppo dissimile dal discorso portato avanti da Steven Wilson nei suoi ultimi exploit solisti, e che ugualmente tenta di passare in rassegna le eredità più salde e immarcescibili degli anni 70 – nelle parole della band, i “magical mystery moments” che le dodici tracce rappresentano.
Nell'insieme, dunque, un approccio molto più rock del solito: con “Moody Styx” il rimando è palese già nel titolo ed è confermato dalla chitarra in wah, attorniata da tastiere fantascientifiche; ma la prima metà della sessione entra davvero nel vivo con il riff ruvido e ossessivo di “Cromagnosis” – come se gli ultimi Swans fossero passati al delay – che nell'ultima parte viene risucchiato in un frenetico vortice di percussioni tribali inseguite da vicino da una chitarra stoppata alla John Petrucci. Sono il giusto contributo “modernizzante” di una band pur sempre figlia di tempi recenti, che con riverenza guarda dichiaratamente a Amon Düül II, Neu! e altre compagini kraut, non sempre nell'elaborazione del sound quanto nella tendenza allo sviluppo su tempi molto spesso dilatati attraverso la ripetizione di singoli elementi ritmici e melodici.
Tale ascendenza assume una forma differente ma altrettanto nostalgica nella seconda metà del percorso inaugurata da “Desert/Dawn”, dove le due anime dei Kraftwerk e di Klaus Schulze si ritrovano perfettamente compendiate e proiettano la loro ombra fino alla serena contemplazione di “Gold Beach”. “Nowhere (Sweet Sixteen)”, rivisitazione del brano finale di “Perdition City”, giunge a spalancare un epico scenario post-rock nel mezzo del lungo detour ambientale ancora da concludersi. Lo si intuisce dalle note di pianoforte che introducono e si ripetono lungo tutta “Ecclesiastes”, la traccia da cui pare sia originata l'idea delle performance “libere”: Kristoffer Rygg vocalizza alcuni profondi versetti dal libro dell'Ecclesiaste, contenuto nella Bibbia ebraica, riconducendo l'ascoltatore a quell'indefinibile intimismo universale che caratterizzò il capolavoro “Shadows Of The Sun”.
To every thing there is a season/ And a time to every purpose under the heaven:/ A time to be born and a time to die/ A time to plant and a time to pluck up that which is planted/ A time to kill and a time to heal/ A time to break down and a time to build up/ A time to weep and a time to laugh/ A time to mourn, and a time to dance [...]
Parole millenarie sigillano un oggetto musicale che, tuttavia, non sembra nascondere segni e significati precisi, ma che una volta tanto vuole essere goduto nel pieno abbandono all'ascolto. Pur nella parziale riuscita dell'esperimento in forma di patchwork, anche “ATGCLVLSSCAP” segna a suo modo un ulteriore passo degli Ulver nella direzione di un'arte totale e autosufficiente, ogni volta più solenne, tanto da far temere che la loro eroica avventura stia davvero volgendo al termine.
26/01/2016