Per l'aggiornamento del suo manifesto estetico di finto-loser (che, in realtà, vince sempre grazie agli intellettualismi), in "Sabato bestiale" e "Canzone contro la paura" Brunori evoca un Lucio Dalla più scattante e appena alzato di tono. "L'uomo nero" impiega una subdola orchestrazione terzomondista che Ivano Fossati può solo invidiare. E "Lamezia Milano", oltre al nuovo atto accusatorio, supera in volata il Battiato de "La voce del padrone".
Questo procedimento si sublima finalmente nei sovratoni-fantasma di voci e tastiere elettroniche e nella danza andina de "La vita liquida", la sua più trasfigurata a partire dalle liriche. Unico vero pathos però proviene dal jingle-jangle desertico "Don Abbondio", subito controbilanciato dal coro di bimbi di "Il costume da torero", e specialmente dalla lettera aperta all'Italia di "Secondo me", l'accettazione agrodolce dello stato di cose, lo yang dell'inizio opera.
A parte l'uso insistito delle rime baciate, irritante soprattutto nella seconda parte, cioè quando l'ascoltatore si aspetterebbe una resa dei conti meno vezzosa, e un paio di canzoni d'amore che sono bozze per Sanremo buttate lì con ammiccamenti sottintesi, non si può negargli una bravura tutta postmoderna, invero mostruosa. La si assaggia nella linea canora: per il sottovoce usa un Battisti prima maniera, per il tono medio il solito De Gregori (e il già citato Fossati), per il forte, oltre a Dalla, anche Gaetano e Drupi. Gli serve per scandagliare il tema uno e trino della contemporaneità (social media, neo-razzismo, post-verità). Un tutto prodigioso che tocca il meglio del suo melodismo e non si ripete negli arrangiamenti, più somma delle parti, che però intrattengono con divertito istrionismo. E un suono equilibrato (di nuovo Taketo Gohara). Il suo album più "giudizio universale".
(01/02/2017)