Grazie a un’uscita di scena straordinaria, tutto il mondo conserva impresse nella mente le immagini esatte che hanno preceduto la dipartita di David Bowie: non più “Duca Bianco” bensì “stella nera”, la leggendaria eterocromia degli occhi obliterata dal buio di una morte affrontata risolutamente con l’estremo gesto artistico, un lucido e sfolgorante testamento come forse nessun altro musicista pop è mai riuscito a consegnare ai posteri.
Ancora oggi, d’altro canto, sono in molti a non apprezzare le inconfondibili modalità espressive di William Basinski, disconoscendo totalmente la sua centralità nella scena ambient post-Duemila – o meglio, post-9/11. Almeno dai quattro “Disintegration Loops” in poi, infatti, lo sperimentatore statunitense è assurto ad autentico simbolo del sentimento nostalgico e di effettiva perdita che sembra permeare ogni aspetto problematico della realtà contemporanea.
Proprio per questo, nessun tributo al Bowie “icona”, più che al poliedrico musicista già da tutti omaggiato, avrebbe potuto essere auspicabile quanto quello dell’intransigente Basinski: il suo utilizzo del nastro come materia prima delle suite non intende rappresentare un ricordo momentaneo, succube della propria finitezza e transitorietà, bensì una più profonda memoria perpetuata nella ripetizione incessante e solo lievemente differente.
Così la dedica di “A Shadow In Time” – e specificatamente del suo primo brano – è rivolta al David Robert Jones registrato all’anagrafe londinese nel lontano 1947: un loop corale di appena dieci secondi ne scandisce l’intera estensione, in quello che inizialmente ha l’aspetto di un accorato requiem classico, ma il cui assorbimento estatico viene d’un tratto scosso dal contrasto quasi violento con un frammento estraneo; è un inserto aspro e amorfo, che il nastro logoro rende simile all’incrocio impossibile tra una linea di chitarra distorta e un sassofono dai toni dolenti, e che nel forzoso accostamento ricorda la sacralità spuria degli “Officium” di Jan Garbarek con l’Hilliard Ensemble.
Non è facile né tantomeno immediato abituare l’orecchio a una dicotomia sonora così netta, che nella concretezza di tale inconciliabilità riesce però a sottolineare la coesistenza di sensazioni complesse nel momento del lutto – commozione, gratitudine, ma anche sincera amarezza per un addio inaspettato, vissuto inconsciamente come un tradimento personale.
Allontanatosi dall’impressionismo pianistico di “Cascade/The Deluge”, qui Basinski mette mano a colori vivi e lucenti che ne costituiscono quasi l’antitesi. Ciò soltanto nella prima metà, laddove la successiva title track non è altro che una nuova aurora liminale, un necessario spazio di distensione psichica e quieta trascendenza ove sembra annullarsi qualsiasi afflato esibito finora. Senonché, a pochi minuti dalla conclusione, riaffiora spontaneamente un estratto ricorrente apparso in “Melancholia” (2005), chiave di volta del repertorio basinskiano, come a dire: “Ti dono l’essenza stessa, il cuore pulsante della mia arte”.
Ed è questa manifestazione epifanica, credo, la vera dedica che il Nostro ha volutamente serbato da ultima per sigillare il suo umile e quantomai fragile ricordo di una figura così segnante della storia recente, un’ombra perduta nel tempo che solo attraverso il proprio maestoso lascito può realmente sfuggire alla Morte e non affievolirsi.
Nota: nella versione in Lp l'ordine delle tracce è invertito.
21/01/2017