Difficile immaginare la musica di ricerca contemporanea senza il pionieristico contributo dell’americano Alvin Lucier, teorico e non-musicista: i suoi esperimenti e le sue installazioni sonore dagli anni 60 a oggi si tramutano in affascinanti riscontri di una fenomenologia nascosta negli ambienti (gli studi sulla risonanza e sul riverbero), nei materiali e negli oggetti d’uso comune, come una semplice matita. Il pieno riconoscimento della sua rivoluzionaria opera è stato tardivo, ma all’età di 86 anni Lucier può giustamente contare sulla stima e il sostegno di istituzioni e musicisti di tutto il mondo.
Inizialmente affiliato all’etichetta Lovely Music Ltd. fondata da Mimi Johnson, vedova del geniale Robert Ashley, dagli anni Duemila a oggi Lucier è stato tributato con numerose raccolte e uno splendido documentario retrospettivo (“No Ideas But In Things”, WERGO, 2013). Ma la presente uscita in Lp su Black Truffle, oltre a presentare due registrazioni in prima assoluta, testimonia chiaramente l’influenza che il compositore esercita tuttora sulla nuova generazione di musicisti sperimentali.
Il brano per due chitarre elettriche “Criss-Cross” (2013) – registrato e mixato da François Bonnet (alias Kassel Jaeger) presso gli studi della INA/GRM di Parigi, di cui è direttore artistico – è infatti eseguito dai suoi dedicatari, ovvero Stephen O’Malley e Oren Ambarchi: entrambi regolarmente coinvolti in progetti d’area estrema e d’avanguardia – l’uno principalmente nei Sunn O))), l’altro da solista e con innumerevoli formazioni –, le loro sei corde sono qui al servizio di un non facile equilibrio su microtoni alternati; i loro archetti elettronici oscillano impercettibilmente sulla stessa nota di Si, creando delicati effetti di sfasamento non soltanto armonico ma anche para-ritmico, a causa dei feedback intermittenti generati dagli amplificatori. La dimostrazione di quanto sia difficile suggerire una stasi artificiale per mezzo di strumenti non elettronici.
Un pallido cenno biografico si cela invece dietro “Hanover” (2015): il brano per ensemble misto, inciso a Zurigo nell’ottobre del 2016, si ispira alla fotografia scelta per la copertina dell’album, datata esattamente a un secolo fa, che ritrae la jazz-band nella quale il padre di Lucier suonava il violino. Un analogo organico – comprendente anche due sassofoni, tre chitarre (al posto dei banjo), pianoforte e vibrafono – è messo al servizio di uno speculare esperimento sull’unisono apparente.
I glissati ascendenti e poi discendenti degli strumenti, intervallati dalle singole note ripetute dal piano come linee guida, danno vita a un rituale cameristico che ancora una volta sottrae alle varie voci il loro timbro specifico e le convoglia verso la creazione di un unico, mellifluo meccanismo di pura risonanza. Come in certe solenni opere orchestrali di Giacinto Scelsi, il confine tra studio sulla percezione sonora e trance meditativa si assottiglia creando un’esperienza d’intensità ulteriore.
La semplicità teorica e l’efficacia delle opere di Lucier è tale da apparire, a seconda dei punti di vista, come un piccolo miracolo di natura acustica o come una banalità, una tesi già comprovata e sulla quale è inutile ritornare. L’impegno e la passione che lo accomunano ad autori come Phill Niblock, Pauline Oliveros ed Éliane Radigue dimostrano, invece, quanto oggi ci sia bisogno di ridare centralità a una tipologia d’ascolto realmente profonda e quanto più possibile lontana da canoni prestabiliti. C’è una bellezza preziosa e invisibile nei suoni più semplici, che anche grazie a tali maestri verrà tramandata e ulteriormente approfondita.
07/02/2018