Che Damon McMahon avesse le foto giuste sul comodino era fuori di dubbio: erano infatti evidenti le influenze di Syd Barrett nel delizioso pop psichedelico di “Through Donkey Jaw”; allo stesso tempo le dichiarate intenzioni di voler proseguire nel solco di Van Morrison avevano trovato un buon riscontro nelle ambiziose pagine di “Love”.
A ogni buon conto, nonostante il supporto di artisti come Colin Stetson o i Godspeed You! Black Emperor, il progetto Amen Dunes non è mai decollato del tutto, lasciando dietro di sé un alone di fragilità creativa che non collimava con le sincere dichiarazioni d’intenti dell’autore.
L’improvvisa malattia della madre e la successiva riflessione su spiritualità, infanzia e rapporti familiari hanno fatto sì che proprio la fragilità assumesse il ruolo di elemento di svolta per il musicista newyorkese.
“Freedom” rappresenta per McMahon, aka Amen Dunes, la conquista della maturità, grazie a una produzione meno invadente (Chris Coady), mirante più a smussare gli angoli e a rafforzare il corpo ritmico, lasciando fluire una lieve malinconia, che più che intorbidire le acque, aggiunge un tocco di mistero alle canzoni più immediate e dirette mai scritte dal musicista.
La formula, più pop e dinamica, dà vita a ricchi concentrati d’emozioni con energici groove soul-rock alla Rolling Stones (“Blue Rose”) e raffinatezze urban-folk in bilico tra Roxy Music e Van Morrison (“Miki Dora”), due brani che elevano non di poco lo standard dell’album. Le coordinate restano quelle di un folk-pop psichedelico open source, con interessanti toni agrodolci, a partire dall’uptempo alla War On Drugs di “Calling Paul The Suffering”, fino alla ruvida ballata retta da un ipnotico giro di basso di “Time”.
La chitarra di Steve Delicate, le tastiere di Raffaele Martirani (aka Panoram), il tocco sicuro della batteria di Pander Krinded (Jeff Buckley) e le due chitarre di Steve Marion e Jordi Wheeler assicurano al disco una solidità strumentale - frutto di ben tre anni di registrazioni e ripensamenti. Su tutto aleggia il caratteristico vibrato della voce, atto a suggerire piacevoli assonanze con Mark Mulcahy (Miracle Legion), un musicista con il quale Damon sembra condividere una spiritualità empirica, che trasuda tra le pieghe più accattivanti e immediate del suo nuovo status di songwriter.
Per molti versi il nuovo album di Amen Dunes ripropone la stessa magia delle migliori esternazioni di Cass McCombs, in un perfetto equilibrio tra poesia e forza comunicativa, diradando quasi del tutto quella nebbia psych-folk che, se funzionava egregiamente per le incandescenti distorsioni di “Through Donkey Jaw”, non sempre si dimostrava adeguata alla raffinata asperità delle composizioni.
Sarà difficile per i detrattori negare l’evidente maturità e personalità di “Freedom”, un album dall’eccellente sequenza finale, tra dolcezze urban-folk (“L.A.”), sensualità dark (“Dracula”) ed esternazioni liriche e armoniche di rara bellezza (“Believe”), che mettono il sigillo all’album più coeso e ispirato a nome Amen Dunes.
30/04/2018