Dopo la collaborazione con i Decemberists nella riproposizione di vari classici della tradizione folk britannica in stile Fairport Convention o Pentangle, Olivia Chaney ritorna col suo secondo Lp solista dopo l’esordio illuminante di “The Longest River” (2015). Chaney si riconferma una delle voci più importanti del folk contemporaneo, con un legame molto vicino alla britannica Sandy Denny, leggendaria vocalist dei Fairport Convention. Non solo conferma di essere dotata di una “grande” voce, ma soprattutto di non essere affatto la “solita” grande voce, nel senso di mostrare capacità canore messe al servizio di un songwriting elaborato e maturo, ricco di personalità e originalità.
“Shelter” è più lontano dalla mera rievocazione della tradizione folk e cerca di trovare una poetica personale sia nei testi che nelle musiche. Scritto in un’isolata casa di campagna dello Yorkshire - un po' come fu per il Mike Oldfield di “Hergest Ridge” (caso strano, anche quello un secondo album) o per il Bon Iver di "Bon Iver" - e intitolato proprio “Shelter” (rifugio), questo nuovo Lp nasce come opera d’arte riflessiva che può scaturire solo da un forzato isolamento dai ritmi frenetici della vita quotidiana, portando quindi a compimento una delle caratteristiche del folk, quella di legarsi alla tradizione (e quindi al passato) per essere alternativo o esplicitamente critico del presente. Tra Joni Mitchell e Sandy Denny, la voce di Olivia Chaney viaggia possente nei suoi dieci brani in un percorso raffinato ed elegante, ricco di un talento innato che non ha ancora raggiunto appieno le sue potenzialità.
La title track è un nobile esempio di moderna poesia folk che sottolinea i propri umani limiti nel bisogno di un rifugio sicuro e di una mano fidata per poter superare i propri demoni interiori (“dammi calore, dammi rifugio, dammi cibo, portami acqua”). Con “Arches” ci trovano di fronte a un folk più prossimo alla tradizione senza che la voce perfetta dia mai un'impressione nostalgica o passatista; poco prima del secondo minuto l’ingresso inatteso di appena tre note di piano ripetute allontana ogni elemento datato per trasportarci in tempi ben più recenti. Le note di piano di “A Tree Grows In Brooklyn” citano il racconto della scrittrice Betty Smith. “O Solitude” è un’interpretazione personale del compositore barocco Henry Purcell, autore molto spesso ricordato e reinterpretato (ricordo la versione per synth della “Musica per il funerale della regina Maria” di Wendy Carlos per uno dei capolavori cinematografici di Stanley Kubrick, "Arancia Meccanica"). La scelta indica quanto la solitudine sia una condizione fondamentale per Chaney per poter comporre e conseguentemente essere se stessa.
“Roman Holiday” raggiunge un perfetto equilibrio melodico, mentre la finale “House On A Hill” chiude quasi “ringraziando” il luogo che ha reso possibile tutto ciò, dove “sono andata a vedere ciò che è vero ma vi ho trovato illusione”, dove realtà e sogno si confondono, dove “sono andata per aver bisogno di meno”, lontana dall'inutilità della ridondanza e dalle iperstimolazioni a cui la moderna società ci sottopone quotidianamente, perché aver meno oggi è un vantaggio e non una deprivazione.
Le potenzialità della compositrice britannica sono indubbiamente enormi ma non sembrano ancora espresse in pieno; l'unico limite di quest'ottimo album è lo stesso del precedente: la mancanza di uno o due grandi brani che sublimino un ruolo a cui la Chaney può aspirare, quello della regina folk del prossimo decennio. Il tempo potrà darle ragione.
11/07/2018