"Trio londinese che ruota intorno alla figura del produttore Dean 'Inflo' Josiah Cover".
Ecco, in poche parole, più o meno tutto quello che viene restituito da Google sul misterioso progetto Sault, artefice nel 2019 di un paio di dischi per Forever Living Originals, e sostanzialmente assente dalle mappe del web (con l'unica vera eccezione di Bandcamp).
Piuttosto normale, quindi, che sia proprio questa scarsità di informazioni a giustificare sia il colpevole ritardo con il quale ci apprestiamo a recensire un disco uscito all'inizio di maggio (nel frattempo doppiato anche dal suo successore,
"7", a fine settembre) sia la curiosità nell'analizzare a posteriori una combinazione di elementi sonori tutt'altro che scontata.
Provando a fare ordine, scopriamo che il curriculum di Dean Josiah brilla per collaborazioni di un certo peso, come
Michael Kiwanuka,
Jungle,
Little Simz, la cui specificità permette da subito di inserire Sault sotto un'egida primariamente
black.
A una prima impressione, è infatti piuttosto facile tirare in ballo l'intero
parterre di sonorità soul/funk/afrobeat di metà anni Settanta, quello fortemente debitore della
blaxploitation (esemplificato con naturalezza dai canoni di "Don't Waste My Time" e "Let Me Go") ma, procedendo nell'ascolto, ci si accorge che la complessità di riferimenti arriva a lambire a tratti tanto il post-punk sincopato dei primi
Pop Group quanto le eteree
texture vocali di marca
Chromatics, evidenziando scelte produttive che tendono alla rarefazione degli elementi.
Josiah e i suoi collaboratori (chiunque essi siano) trovano un'insospettabile messa a fuoco nello scommettere sulla predominanza della sezione ritmica (spesso piuttosto satura di distorsione analogica) in un contesto di arrangiamenti essenziali, perfetti per lasciare sotto i riflettori linee di cantato quasi esclusivamente femminili.
Il ruolo degli altri strumenti, dalle tastiere anni Ottanta di "Up All Night" e "Why Why Why Why Why" al morbido fraseggio funk della chitarra in "We Are The Sun", è connotato dalla volontà di non definire mai un percorso meramente
revivalistico, e dal lasciare spazio all'altro aspetto fondamentale del progetto (oltre al
groove), la scrittura.
L'intero lotto di canzoni si distingue per la capacità di non prestare il fianco a divagazioni di sorta, con episodi anche piuttosto memorabili (su tutti "Something's In The Air") che raramente arrivano ai cinque minuti di durata; completa l’opera una certa predilezione per ritornelli orecchiabili, che strizza l'occhio solo in parte al
mainstream di matrice neosoul (terreno battuto invece in maniera più evidente dai già menzionati Jungle).
Un complesso intreccio di elementi nuovi e vecchi che rende l'ascolto al contempo familiare e inaspettato, corroborato dalla necessità di indagare sulla natura dei suoi autori e dalla speranza che non si tratti soltanto di un esperimento, per quanto decisamente riuscito.
07/01/2020